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Primo Levi e la montagna, libero di sbagliare

Qualche anno fa mi è capitato tra le mani un vecchio numero della Rivista della Montagna. Quello uscito nel marzo 1984 con in copertina due arrampicatori in corda doppia sulle rocce di Finale e un primo piano dello scrittore Primo Levi.

Curioso trovare una foto del chimico torinese sulla Rivista della Montagna, anche se – l’ho imparato con il tempo – le terre alte contagiano anche le persone più insospettabili. Fatto sta che oggi, a cento anni esatti dalla sua nascita, sono andato a ricercare quelle pagine, perché se c’è una cosa che mi è rimasta ben impressa nella mente sono state le parole di Levi. Le espressioni che il torinese usava per raccontare la sua passione, per descrivere i sentimenti provati e per narrare, prima gli anni spensierati della giovinezza, e poi quelli tragici di un mondo allo sfascio.

Tutti lo conosciamo per Se questo è un uomo, crudo racconto della sua esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz, in cui Primo Levi fu deportato nel dicembre del 1943. L’avevano catturato insieme ad altri compagni nei boschi valdostani dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre, aveva messo su una piccola banda partigiana. Ebreo, Levi non poteva che scegliere di andare contro il regime, rifugiarsi tra le montagne amiche e combattere da ribelle. Tutta la sua passione per la montagna “era un’assurda forma di ribellione” racconterà lo scrittore al giornalista Alberto Papuzzi. “Tu fascista, mi discrimini, mi isoli, dici che sono uno che vale di meno, inferiore, ‘unterer’: ebbene, io ti dimostro che non è così. Mi ero subito promosso capocordata, senza esperienza, senza scuola: devo dire che l’imprudenza faceva parte del gioco. […] Neppure col Cai avevamo rapporti, nel nostro gruppo. Era un’istituzione fascista e noi eravamo antistituzionali: la montagna rappresentava proprio la libertà, una finestrella di libertà. Forse c’era anche, oscuramente, un bisogno di prepararsi agli eventi futuri”.

Levi in quegli anni era studente universitario a Torino, in Via Giuria, a due passi dal Parco del Valentino, dove poi gli sarà dedicata la sontuosa aula magna del dipartimento di Chimica. Studi in cui ricercava “la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere. Ora, la passione per la montagna era complice della passione per la chimica, nel senso di ritrovare in montagna gli elementi del sistema periodico, incastrati fra le rocce, incapsulati tra i ghiacci, e cercare di decifrare attraverso essi la natura della montagna, la sua struttura, il perché della forma di un canalino, la storia dell’architettura di un seracco”. Levi visse con scientificità le sue esperienze tra i monti, osservandosi tutt’intorno con metodo, senza però tralasciare la componente romantica. Tra le sue letture figuravano infatti gli appassionati racconti d’alpinismo di Mummery e Whymper, ma anche i grandi classici della letteratura d’avventura come Melville, Conrad, Kipling e London. Sprezzo euforico del pericolo, poca attrezzatura e voglia di vivere un’avventura a portata di mano su quelle montagne che non costavano nulla ma che sapevano regalare tanto. “Al Sestriere non s’andava mai, perché c’erano le funivie, e le funivie erano peggio del demonio! Niente giacche imbottite, niente scarpe nuove, la guida del Cai serviva solo per fare l’opposto di quanto consigliava. Poi si partiva, con tutto l’entusiasmo giovanile e i pantaloni alla zuava, verso la vetta del Gran Paradiso, su per le rocce del Disgrazia o ancora, sci ai piedi, su qualche traccia alpinistica d’altri tempi.

Primo Levi tornò ancora sulle sue montagne piemontesi, dopo la Liberazione. Lunghe camminate e traversate con gli sci accompagnarono i suoi anni maturi. Poi un giorno, verso i cinquant’anni, la decisione di cimentarsi ancora una volta con l’arrampicata. “Volevo dimostrare a me stesso che ero ancora capace” racconterà. Eccolo allora impegnato in Valle d’Aosta sui facili passaggi di terzo della Testa Grigia.

Lo scrittore torinese non lascerà mai la montagna, continuerà a frequentarla fino all’ultimo giorno, portando sempre con sé i suoi insegnamenti. Di un bivacco in quota in pieno inverno, una delle sue più belle avventure tra i monti, ricordava il freddo e il dubbio. L’incognita della discesa lo portò a chiedere al compagno, Sandro Delmastro: “Come faremo a scendere?”. Non ti preoccupare, rispose l’amico, “il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso”. La carne dell’orso: la notte gelida in parete, che Levi riprenderà in uno dei suoi libri più belli, Il sistema periodico. Nel capitolo Ferro scrive: Tornammo a valle coi nostri mezzi e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come ce la eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino”.

In tanti hanno speso parole per raccontare la propria passione per la montagna, in pochi hanno saputo esprimere così bene la libera gioia della fatica. Questo era Primo Levi: alpinista, chimico, scrittore e partigiano sopravvissuto alla più buia delle stagioni umane.

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