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Stagione alpinistica in Himalaya: nuove polemiche sui salvataggi sugli 8000

Dopo le polemiche relative ai ritardi dei soccorsi sull’Annapurna, che hanno con tutta probabilità causato il decesso dell’alpinista malese Wui Kin Chin, anche l’intervento di soccorso dei due indiani, poi morti per mal di montagna, sul Kanchenjunga sta facendo discutere.

Ad accendere il caso l’alpinista nepalese Nirmal ‘Nims’ Purja, che, insieme ai suoi sherpa Mingma David e Gesman Tamang, era anch’esso in discesa dalla vetta della montagna ed è stato il primo ad intervenire in soccorso.

Cosa rende un alpinista di alta quota, un alpinista estremo, un esperto, un leader e una guida?” domanda Nirmal prima di incominciare la ricostruzione dei fatti e lanciare una dura accusa.

Secondo il report, il team di Purja è arrivato in vetta al Kanchenjunga alle 11.19 AM del 15 maggio, in condizioni di stanchezza dato il progetto che sta affrontando e che lo ha portato in cima al Dhaulagiri con il maltempo pochi giorni prima, il 12 maggio.
In discesa, alla quota di 8450 metri, i tre hanno incontrato Biplab Baidya con la propria guida, Dawa Sherpa, entrambi con l’ossigeno terminato e in difficoltà. È stato quindi dato ai due l’ossigeno di riserva ed è stata una squadra di soccorso da campo 4 che portasse altre bombole.

150 metri sotto il gruppo ha trovato il secondo indiano, Kuntal Karar, lasciato solo, a cui Nirmal ha dato il proprio ossigeno supplementare. Dopo qualche altro metro in discesa anche Gesman Tamang ha ceduto la propria bombola di ossigeno agli alpinisti in difficoltà. Alle 14.30 tutto il team di Purja stava conducendo l’operazione di soccorso a oltre 8000 metri senza ossigeno.

Nonostante le richieste fatte all’agenzia degli indiani, ogni quarto d’ora, di inviare degli sherpa da capo 4 in aiuto, nessuno è arrivato. “Mi è stato detto che tre sherpa stavano arrivando con l’O2, questo non è mai successo. Mi è stata data questa risposta a ogni mia richiesta via radio. Ciò ha avuto un impatto grave sulla mia squadra ed è stato un enorme rischio per la vita” scrive Nirmal.

La situazione si complica quando anche Geshman e poi Mingma iniziano a soffrire di mal di montagna e sono costretti a scendere. Nel frattempo, l’indiano Kuntal muore. L’operazione prosegue pertanto con il solo Nirmal a salvare Biplab e Dawa, tutti e tre sono senza ossigeno supplementare. Purtroppo, nemmeno il secondo alpinista indiano ce la fa e muore poco dopo.

Da questa narrazione l’accusa del nepalese: “C’erano molti scalatori, circa 50, sul Kanchenjunga in questa stagione. Entrambe le vite si sarebbero potute salvare se qualcuno dei tanti alpinisti avesse osato aiutare. Il team di Project Possible aveva bisogno di aiuto per salvare vite, ma non ne ha ricevuto”.

La questione è complicata e analizzabile da molti punti di vista. Vogliamo pertanto lasciarvi qualche domanda e spunto di riflessione per conoscere la vostra opinione e poterla approfondire nei prossimi giorni.

Prima di tutto vi chiediamo se, secondo voi, esiste o meno un obbligo di soccorso a oltre 8000m. Ci vengono in mente tanti alpinisti e tanti sherpa che nella storia degli 8000 hanno accolto le richieste di aiuto, mettendo a volte a repentaglio anche la propria sicurezza, ma è una cosa dovuta o si deve davvero pensare che a determinate quote si è da soli e si può contare solo su se stessi e, se va bene, sull’altruismo di chi è sulla montagna?

Rivolgendosi al rapporto tra agenzie e clienti, sempre più incentrato al business e regolamentato da meccanismi di semplice vendita di servizi, si può pensare che vi sia un’aspettativa distorta da parte di questi alpinisti relativamente a quello che “comprano” e quindi possono avere, come ad esempio un soccorso a 8000m? D’altro canto, c’è una responsabilità da parte delle agenzie, sempre più concentrate al business, di portare clienti, spesso non troppo preparati all’ambiente degli 8000, in vetta?

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