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K2 e Nanga Parbat in inverno. È finita la stagione

I russi-kazaki-kirghisi, partiti a inizio gennaio (i tre rimpiazzi a metà febbraio), al K2 non sono andati meglio dei loro predecessori: hanno messo il naso sulla spalla, fino a 7.500 m, e si son ritirati in buon ordine piallati dal vento costante e dal freddo. Tre campi, un po’ su e un po’ giù rispetto agli originali estivi, corde fisse e niente ossigeno. Niente condivisione, ma competizione con l’altro inquilino invernale del K2, Alex Txikon (lì con due compatrioti, tre polacchi e cinque sherpa) che prima ha faticato a trovare la sua via e poi, quando pensava di condividere lo Sperone Abruzzi con l’armata russa, s’è sentito urlare in faccio un sonoro “niet”.

E dunque il K2 vergine invernale, la gran becca del Karakorum, rimane lì, simbolo e tentazione per nuovi competitor o per gli stessi che si ostineranno nell’inverno prossimo. Alex ci tornerà, ne sono sicuro.

Tecnicamente viene ancora una volta dimostrato che una salita complessa come questa necessita di scelte chiare per essere superata. Un poderoso “esercito” alpinistico con piani di “conquista” precisi e rigorosi è una possibilità demodé quanto si vuole, ma visto che in amore e in guerra (alcuni sostengono anche in alpinismo) tutto è lecito, ci sta. Ma i russi-kazki-kirghisi hanno perso mezza squadra prima della partenza da Mosca, poi hanno anche loro fatto più proclami di ardimento e tentativi, che progressi verso la parte terminale del K2, piazzando almeno campo 4. Il problema alpinistico, tecnico e psicologico, sta lì d’estate, figuriamoci d’inverno. E poi la scoperta della comunicazione diffusa, del crowfunding internazionale, forse qualche distrazione l’ha provocata. Do svidaniya.

Alex Txikon in qualche modo lo aveva annunciato che per salire il K2 in inverno bisogna prima metterci il naso capire, infilarsi in un processo di assimilazione della montagna. Così ha fatto. Il soccorso al Nanga Parbat, i 10 giorni dedicati a Nardi e Ballard non sono stati facili dal punto di vista emotivo e tantomeno della forma fisica. Alex è un energetico e un entusiasta ma pensarlo subito pronto a riprendere la corsa sul K2 forse era troppo. Ci penserà. La montagna rimane lì, immacolata nella sua veste invernale. Credo Alex ora abbia tutti gli elementi per pensare ad un tentativo con qualche possibilità in più.

Nanga Parbat. Questo è qualcosa che non avrei voluto scrivere. Ho un pessimo rapporto con il Nanga Parbat: la vicenda di Karl Unterkircher, poi quella di Elisabeth e Tomek e ora Daniele e Tom. Era talmente illogico che quasi ci avevo creduto. Avevo pensato che a volte i sogni si realizzano e che l’esperienza di Daniele, ancora una volta ostinatamente su quella parete, su quella montagna, con l’energia prorompente di Tom, la sua voglia di imprese alpinistiche al di fuori degli schemi competitivi, questa volta potesse avere la meglio. Invece no. Scriverò, forse tra un mese o più, di quel che tecnicamente penso. Non ora.

Un giorno poi, vorrei scrivere anche di questa esperienza di lontano soccorritore telefonico, scaraventato dentro le convulse e drammatiche esperienze che si svolgono a migliaia di chilometri, a quote altissime, dentro atmosfere siderali e paradossi del clima e dell’uomo alpinista.

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