Marcello Sanguineti: l’alpinismo è una necessità di vita
Ha un lunghissimo curriculum di ascensioni e prime ascensioni, tra cui una candidatura ai Piolets d’Or 2018 per la nuova via “Amman in Kashmir”, aperta nell’agosto 2017 nel Karakorum pakistano. Classe 1968, Marcello Sanguineti è un accademico del CAI ma, di professione è professore di ricerca operativa presso l’Università di Genova. Vive in un paesino sopra Chiavari dove, ci dice, “quando apro la finestra di casa mi godo l’infinità del mare”, ma si trova a proprio sulla verticalità delle pareti alpine e del mondo. Di lui si conoscono le nuove vie e le grandi realizzazioni; oggi cerchiamo di scoprire cosa lo spinge ad andare dove ancora non è salito nessuno. Come ci si sente dopo una candidatura al Piolets d’Or? Direi che ci si sente motivati a cercare di fare ancora meglio. Ora come ora credo sia importante non tanto godersi la candidatura, quanto prendere esempio da chi il Piolet d’Or l’ha vinto e provare a vivere altre esperienze di questo tipo. Se dovessi fare un paragone, la nomination ai Piolet d’Or è un po’ come quando pubblico un risultato scientifico su una rivista prestigiosa. Un successo che dà sicuramente soddisfazione, ma la cosa veramente importante è continuare a fare buona ricerca – anche se, magari, risultati successivi non vanno a finire su una rivista altrettanto importante. A volte succede di trovare risultati scientifici di grande importanza, senza pubblicarli su riviste top. Viceversa, può capitare di pubblicare lavori meno significativi su riviste più prestigiose. È così che vivo questa candidatura ai Piolets d’Or. Visto che hai tirato in ballo l’argomento, come riesci a combinare il lavoro da ricercatore con questo tipo di alpinismo esplorativo/estremo? Io sono un ricercatore e la Ricerca (con la “R” maiuscola), fatta seriamente, è qualcosa di estremo. “Estremo” nel senso che noi ricercatori cerchiamo di oltrepassare i limiti per definirne di nuovi, esattamente come accade nell’alpinismo esplorativo. L’unica differenza sta nel fatto che nel primo caso si tratta di un’attività mentale, mentre nel secondo di un’attività fisica. Molto probabilmente, se io fossi un professionista della montagna non realizzerei exploit alpinistici, perché a lungo andare la montagna mi annoierebbe. In effetti, il mio grande problema nella vita è il rischio di annoiarmi: per questo devo fare quante più cose possibile, che mi permettano di cambiare continuamente contesto, di passare da carta e penna a piccozze e friends. È qualcosa che mi eccita, che mi esalta, che mi dà vita. L’importante, per me, sta nel rendere ogni giornata il più diversa possibile dalla precedente. Un vero amore per la montagna… Esatto. Nonostante questo, però, non vivrei in montagna per tutto l’oro del mondo. A me piace scalare le montagne, ma, una volta arrivato in vetta, resto… come dire… “perplesso”. Guardo il panorama, poi capisco, con un po’ di delusione, che non resta altro che scendere. Dopo poco che sono in valle mi sento “in gabbia”: vi rimango solo se ho in programma a brevissimo un’altra salita, altrimenti preferisco tornarmene di fronte al mare, dove posso godere dell’infinito. Il fatto è che sono un “assetato di infinito”. La montagna mi regala questa sensazione in verticale, ma solo mentre scalo o, al limite, mentre concepisco una salita. Per provare l’infinità orizzontale, invece, mi basta guardare il mare, sentirne l’odore e “respirarlo” con gli occhi. Nella tua ricerca di questa libertà verticale hai disegnato tanti nuovi tracciati. Credi che “Amman in Kashmir, la via candidata al Piolets d’Or, sia effettivamente la più bella? Si tratta di una salita che presenta notevoli difficoltà tecniche, ma l’ingrediente che la rende unica è il contesto in cui si svolge. La via è stata tracciata su una montagna mai salita prima, nel Kashmir pakistano, in totale isolamento e con difficoltà logistiche, in un massiccio mai esplorato in precedenza e in una valle che ha visto pochissimi alpinisti: prima di noi (con me c’erano Gian Luca Cavalli e Michele Focchi) solo due spedizioni si erano addentrate nelle alte valli Kondus-Kaberi, ma non nel massiccio dove abbiamo operato noi tre. Dal punto di vista tecnico credo di aver fatto salite più impegnative; si tratta di vie che, forse, sono state fatte nel “momento sbagliato”, cioè in un momento in cui non sono state valorizzate. Ad esempio, mi vengono in mente alcune mie aperture in Sud America e anche sulle Alpi.
Se dovessi scegliere quale delle tue vie reputi tra le più interessanti? Sceglierne una è difficile. Credo che le mie vie nuove più significative siano tre. Una è certamente “Amman in Kashmir”, per i motivi che ho spiegato prima. Accanto ad essa metterei “Plein Sud”, realizzata nel 2010 sulla parete Sud delle Grandes Jorasses insieme a Sergio De Leo, Michel Coranotte e Marco Appino. Un particolare, per capire di cosa sto parlando: quella di Plein Sud è stata la quinta salita della parete sud delle mitiche Grandes Jorasses. Si tratta di un percorso magnifico, che segue il grande camino, linea naturale della parete, che aveva respinto Grassi & soci nel 1985. All’epoca di Grassi non esistevano ancora le tecniche di dry-tooling che si utilizzano adesso e che hanno reso possibile la nostra salita. Va detto che non siamo riusciti a raggiungere la vetta delle Grandes Jorasses. Ci siamo fermati a poca distanza dalla brèche della III Torre di Tronchey: per proseguire sarebbe stato necessario usare qualche spit negli ultimi metri prima della brèche, ma avevamo deciso di effettuare la salita in puro stile “trad”. Infine, completerei il mio “magico tris” con è una via aperta in Cordigliera Real (Bolivia), un tracciato datato fine anni ’90. Sto parlando della prima traversata integrale da nord a sud delle cinque vette dell’Illimani. Senza dubbio molto più semplice tecnicamente delle due salite precedenti, ma un gioiello dal punto di vista estetico e di isolamento: una cavalcata di circa 16 chilometri di sviluppo, tre dei quali oltre i 6000 metri di quota, effettuata in cinque giorni e tutt’ora irripetuta. Visto che hai citato “Plein Sud”, sappiamo che anche Denis Urubko si è complimentato con te per la realizzazione… Sì. Ho incontrato Denis lo scorso ottobre in Valsassina, al convegno del Club Alpino Accademico. Si è complimentato per quella salita, per esser riusciti a scovare, nel 2010, una linea naturale così importante sulle Alpi, addirittura nel Bianco e sulla sua parete più alta del massiccio (la sud delle Jorasses è circa 200 circa metri più alta della nord…). Al momento “Plein Sud” ha una sola ripetizione, da parte di Matt Helliker e Jon Bracey. Mi ha fatto molto piacere leggere la loro recensione, in cui hanno l’hanno definita una magnifica avventura in un ambiente incredibile. In effetti, sembra quasi di scalare in un inferno dantesco. Da ligure, da amante dell’infinità che offre il mare, come sei arrivato a questo tipo di alpinismo? Di certo non è una passione che arriva dalla mia famiglia, anche se a mia mamma è sempre piaciuta la montagna. È stata lei la prima ad accompagnare me e mio fratello in escursioni, anche impegnative. Mio papà, invece, non concepisce proprio l’idea di camminata in montagna e alpinismo. La prima volta in cui ho capito di trovarmi bene in montagna è stato quando avevo sedici anni, durante una vacanza invernale a Cogne, con amici di famiglia. Da allora, per otto anni, tutte le estati trascorrevo un periodo nella mitica “Casa Alpina” di Cogne con i miei genitori e mio fratello, facendo escursioni via via più impegnative. Nella Casa Alpina c’era un’atmosfera magica, irripetibile; ogni volta che si organizzava un’escursione la sensazione era quella di partire per esplorare un nuovo universo. Un giorno, in cima alla Punta Pousset, dove ero salito con mia mamma e mio fratello, incontrai “Jean” Crudo, che propose a me, mio fratello e un nostro amico di salire insieme la Tersiva. Fu allora che calzai per la prima volta i ramponi – che emozione! Da allora ho scalato sulle montagne di mezzo mondo, ma nulla è paragonabile a quelle estati nelle valli di Cogne. Poi? Poi non mi sono più fermato, d’altronde l’appetito vien mangiando. Ho continuato facendo altre salite tecnicamente semplici, come la normale al Gran Paradiso, e solo dopo la Laurea a praticare alpinismo di un certo livello. Ho iniziato dopo essermi laureato perché prima non avevo molto da spendere per l’attrezzatura e i viaggi. Ogni tanto però lasci da parte questo tipo d’alpinismo di scoperta per dedicarti a qualcosa di completamente diverso, come dimostra il viaggio in Giordania con il CAI di qualche mese fa per contribuire alla creazione di un nuovo tipo di turismo dedicato alla montagna… Dovendo essere sincero, egoisticamente parlando preferirei che la maggior parte dei luoghi di montagna rimanessero poco esplorati e conosciuti, per avere più terreno di gioco (ride). Da un punto di vista più realistico, però, credo sia importante contribuire con l’arrampicata e l’alpinismo a creare una forma di turismo sostenibile. Serve ad evitare lo sviluppo di altre tipologie di turismo, che, spesso, danneggiano l’ambiente. Nel caso specifico del viaggio alpinistico-esplorativo in Giordania, nella regione di Wadi Sulam, abbiamo portato avanti un’iniziativa di questo tipo insieme al Jordan Tourism Board. Eravamo un gruppo numeroso e abbiamo aperto un buon numero di itinerari “trad” o “quasi trad” (minimizzando cioè l’uso di spit). Ci sono già stati ripetitori e sono convinto che questa iniziativa richiamerà una forma di turismo rispettosa della Natura: chi meglio degli alpinisti può capire il valore di preservare l’ambiente? Sono rientrato un paio di settimane fa da un’esperienza simile nell’Anti-Atlante marocchino; questa volta eravamo solo in tre, ma abbiamo comunque aperto itinerari, sempre in stile “trad” o “quasi-trad”, che meritano sicuramente di essere ripetuti.
Qualcuno paragona la ricerca matematica, la dimostrazione dei teoremi, la costruzione matematica di modelli legati a problemi reali sempre piu’ complessi , alla ricerca di una via nuova su una parete…o al perfezionamento di una via precedente.Compresi insuccessi, false intuizioni e dimostrazioni col difetto ,modelli che si inceppano.
Poi si resiste a lunghi periodi al tavolino o in studio,alla lavagna ed al computer, se prima ci si e’ sfogati che non si hanno piu’ energie ..fisiche e la mente non parte per conto suo a sognare ed immaginare, e’ momentaneamente sazia..
Ospitata di recente intervista di GiorgioDaidola..che mestiere fa???Solo il Telemarker??
Se non c’e’ l’alpinismo, ci sono altre attivita’ montane.Come si piazzano nel ranking le universita’ di Trento, Bolzano, Innsbruck, ecc. con sede in zone montane?Come vanno le iscrizioni di studenti non solo ai corsi, ma anche ai vari CUS in varie specialita’di sport alpini? secondo me in certe zone sono incentivati e supportati ,in altre osteggiati e poco considerati. Mica ci sono solo i corpi militari come sbocco obbligato per sport minori non
sponsorizzatissimi..
Ci vorrebbe anche un gruppo sportivo MIUR, anche di alpinismo.
Che mestiere ha fatto l’alpinista Sergio Martini ??
Docente di educazione fisica scuola pubblica a Rovereto,
Era sponsorizzato dal Ministero Istruzione che dopo i 14 ottomila ne ha fatto un esempio, o ha dovuto chiedere periodi di aspettativa senza stipendio e contributi pensionistici?
Unica luce: il diffondersi in zone montane degli istituti superiori sportivi…con orari lezioni compatibili con allenamenti.Poi magari ci si ritrovano atleti che rilasciano interviste in inglese o tedesco, sanno fare di conto…conoscono fisica , chimica, anatomia e fisiologia..storia, geografia…poesia..
Una domanda: ma si può considerare di avere aperto una via nuova (mi riferisco a Plein Sud) se questa non solo non finisce in cima, ma addirittura non arriva neanche in cresta? Forse questo è più assimilabile ad un tentativo.
Non conosco la salita dei ripetitori, ma se questi sono sbucati in cresta e magari hanno anche raggiunto la cima credo dovrebbe spettare a loro la titolarità della via.