Storia dell'alpinismo

Dalla Grande Guerra, all’Antartide. Un viaggio nei ricordi con Bepi Magrin

Dolomitico di Valdagno Bepi, all’anagrafe Giuseppe Giorgio Magrin, vive ai piedi dei luoghi della Grande Guerra. Montagne segnate da storie di combattimenti, di guerra, di morte. Le stesse cime su cui tra pochi mesi, cento anni fa, cessavano i combattimenti e tornava il silenzio della natura.

Sono montagne segnate indelebilmente, cime su cui ancora si possono trovare tracce, oggetti. Una quantità di oggetti impressionante, tra cui bombe in quantità industriali.”

Gli ultimi anni della mia carriera militare li ho dedicati a far saltare i residui bellici che emergevano dal ghiaccio. Veniva fuori di tutto, bombe, morti, baracche. Non avete idea di quante tracce io abbia trovato sui ghiacciai dell’Adamello e dell’Ortles.”

Sono ghiacciai che conosco a fondo. Gli stessi su cui mi sono messo alla ricerca del capitano Arnaldo Berni, morto a due mesi dalla fine della guerra, il 3 settembre 1918, sul San Matteo (3678 metri). Prima di me si era mosso il suo attendente, aveva cercato il corpo, senza però riuscire a trovarlo così ho pensato di proseguire il suo lavoro. Per me, alpino, era una storia molto coinvolgente… ma ho concluso poco anche io. Le sue spoglie rimangono nel ghiacciaio, nella tomba più degna per un alpino.”

 

Quali sono state le tue prime esperienze su quelle cime? Da dove trae origine la tua passione?

Potrei dire che tutto inizia con i campeggi dell’oratorio. A quel tempo si andava con il prete, un sacerdote carico, grintoso che ci aveva instillato questa voglia di andare, di salire, di scalare. Ricordo che ci portava sulle Pale di San Martino dove c’erano gli scalatori, uomini d’altri tempi. Li guardavo e sognavo, poi è venuto il tempo di trasformare questi sogni in realtà e ho iniziato a fare qualche scalata sulle Piccole Dolomiti.

Queste montagne hanno un humus favorevole. Sono cime con una grande tradizione alpinistica che ti permettono di muoverti su pareti storiche. Io qui avrò aperto una sessantina di vie.

Dopo sei diventato Guida Alpina Militare…

Si. Ero un istruttore di alpinismo. Accompagnavo gli alpini ad arrampicare. Erano anni intensi. Con gli allievi facevamo anche venti vie di roccia per corso. Erano corsi formanti, lo scrissi una volta in un pezzo per lo Scarpone. Scrissi che chi fa i corsi militari è ben più preparato di chi fa i corsi CAI dove al massimo fai una o due ascensioni.

Noi li formavamo, dai nostri corsi sono usciti personaggi che poi han scritto delle belle pagine d’alpinismo.

Anche tra gli istruttori c’era un bel clima. Eravamo in quattro e avevamo ricevuto il permesso dal comando di non dormire in tenda. In Val di Fassa, dove tenevamo i corsi, pioveva sempre e non era il caso. Ci avevano concesso di stare in una casetta. Un posto gestito dalla signora Tina, la nipote di Tita Piaz. Stavamo nella dependance di questo alberghetto, vivevamo negli stessi luoghi di Tita Piaz. Si era creato quasi un legame di continuità con quel diavolo delle Dolomiti.

Ricordo che finiti i corsi con gli Alpini andavamo a fare le nostre vie, eravamo davvero un bel gruppo affiatato.

Sappiamo che hai passato cinque mesi in Antartide in una base italiana, occasione in cui ha ritrovato per caso la slitta di Robert Falcon Scott…

Si, mi trovavo in Antartide con altre 4 guide per fornire supporto logistico e di sicurezza ai gruppi di ricerca ENEA e CNR. Ci occupavamo della sicurezza dei ricercatori perché molti non sapevano muoversi in quell’ambiente e poi di tutto il lavoro logistico. Impiantavamo i campi, pensavamo ai viveri, facevamo insomma il lavoro duro.

Un giorno avevo accompagnato uno scienziato su un costone di roccia. Doveva prelevare dei campioni, cercavano l’eclogite. Siamo allora saliti verso l’altro per prelevare qualche pezzo di roccia quando tra due messi vedo un oggetto. Mi ha incuriosito perché non aveva un aspetto naturale, non era parte dell’ambiente.

L’abbiamo identificato, ma non abbiamo toccato nulla. Abbiamo solo preso il punto GPS, poi sono andate le autorità a fare i rilievi del caso.

Quando il mondo extraeuropeo è diventato il tuo sfogo?

Ho fatto trent’anni di naja e chiaramente questo ti limita moltissimo. Non hai possibilità di muoverti senza chiedere permessi.

Quando poi ho finito ho deciso di viaggiare e di iniziare ad andare in giro per montagne. Avevo voglia di prendermi una sorta di rivincita sulle vita e così sono andato in giro per il mondo. Spesso partivo per visitare posti, senza l’intenzione di scalare montagne, poi capitava che trovavo degli appassionati sul posto e allora ci si legava insieme e si andava.

Da lì in poi non mi sono più fermato e ho recuperato tutto quel che avrei sempre voluto vedere. Ho visto e salito moltissime cime.

Un ricordo di così tanti anni passati tra le montagne?

Così su due piedi mi viene in mente un momento pre Antartide. Un giorno in cui stavo aprendo una via con due amici padovani e dall’alto è partita un’enorme scarica di massi. Pietre grosse come una cinquecento che mi han sfiorato. Mi han preso il caschetto e, nonostante questo, mi han dovuto dare una 25 punti oltre a constatare la lussazione di una spalla. Mi son dovuto calare con una sola mano fin sotto la parete. Gli amici invece sono fortunatamente rimasti incolumi.

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3 Commenti

  1. Bellissima intervista , belle anche le foto con l’abbigliamento e calzature delle mia generazione…comprati con i primi stipendi .

  2. Non credo che fosse Doug Scott (non mi risulta sia mai stato in Antartide), ma piuttosto Robert Falcon Scott esploratore inglese che fece due spedizioni in quelle regioni nel 1909 e 1911 e ivi trovò una morte epica.

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