Alpinismo

Daniele Nardi Storytelling: da Skardu a Targas

Testo di Michele Focchi – Foto di Daniele Nardi

Il pomeriggio tardi del 28 luglio mi ritrovo a scambiare due chiacchiere con il receptionist del nostro albergo, che mi avvicina per chiedermi cosa andiamo a fare sulle montagne del Kashmir e cosa ci motivi. “Perchè andate a scalare quelle montagne pericolose?”. Rispondo di getto: “Beh, perché è bello!”. Vedendo che non capisce la mia risposta, aggiungo alcune frasi precostituite (che tuttavia condivido pienamente) di “stampo bonattiano”, tipo: “Andiamo a scalare alte vette perché, andando fuori dalla nostra comfort zone e confrontandoci con il nostro limite, conosceremo meglio noi stessi!”. Il tipo mi guarda con due occhi increduli: “Ah, noi Pakistani ce ne stiamo ben lontani da quelle montagne! Troppo pericoloso anche solo avvicinarsici! I nostri genitori ci dicono che non vale neanche la pena andare in bicicletta, dato che puoi farti male”. Forse quella per l’alpinismo è una passione che in Pakistan non si è ancora sviluppata… In realtà, parlando con Daniele capisco che la ragione risiede nella loro scarsa fiducia nelle strutture sanitarie, per cui “è meglio non farsi male, se vuoi sopravvivere”.

Mentre sono immerso in queste conversazioni, suona il campanello e si presenta il nostro “liason officer”, ossia la persona grazie alla quale riusciremo a passare i posti di blocco che si trovano lungo il percorso verso il campo base. Il militare si chiama Kamil, è un ingegnere di Karachi e ha 28 anni . Ci scorterà tutto il tempo che staremo nel Karakorum. Kamil ci dà l’impressione di essere molto affabile. Marcello ed io lo accogliamo calorosamente, in attesa che arrivi il resto del gruppo che era uscito per compere.

Permesso ottenuto @ Daniele Nardi

Il giorno dopo, finalmente, prendiamo l’aereo per Skardu. Al gate Daniele ci viene incontro scuro in volto: “Ragazzi, mi dispiace dirvelo, il volo è stato cancellato”… (silenzio)(pausa). “Scherzavo!!”. Tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Il volo è molto breve e, a memoria di Daniele, l’aereo è molto più grande e veloce rispetto a quelli in uso fino pochi anni fa. Dopo poco più di un’ora inizia la virata per entrare nella valle di Skardu. Dal finestrino fanno capolino le prime montagne, che sembrano di roccia decisamente poco compatta.

Una volta atterrati, Alì ci porta all’Hotel K2, dove ci fermeremo per due notti. L’hotel è un punto di partenza di tante spedizioni internazionali, che sono ricordate da altrettanti poster e foto appese alle pareti. Tra queste, anche le foto di Lino Lacedelli e Agostino da Polenza e quella della spedizione pakistana sul K2. C’e’ anche un tendone piramidale in cui è allestito il museo della montagna, accanto ad un enorme prato pensile su una balconata di fronte al fiume Indo.

Con Kate, Tom e Cuen montiamo la slack line sul terrazzo per fare un po’ di esercizio. Poi, Kate guida una fantastica sessione di yoga. A cena incontriamo alpinisti di ritorno dal Gashebrum II e alcuni russi in partenza per uno dei Latok.

Spesso a cena facciamo presente a Daniele alcune cose che mancano. Lui risponde “in qualche modo le recuperiamo”. Pierluigi osserva sagacemente: “sembra che per uno scalatore la vita sia come una corda… in qualche modo la recupera!” e tutti scoppiano in una fragorosa risata. Tuttavia, specialmente la mattina, il sentimento che più serpeggia tra i componenti della spedizione, è impazienza mista a trepidante attesa.

Il giorno successivo è domenica: l’ufficio militare è chiuso e dobbiamo aspettare che Alì ottenga i famigerati permessi, per accedere all’area del campo base. Un altro giorno di attesa! Ne approfittiamo per far compere e recuperare (“recuperare”, appunto!) il materiale che ci manca. Poco fuori dall’hotel incappiamo in un negozio di materiale da montagna, sorprendentemente fornito. Si chiama Northern Mountaneering ed è gestito dal simpatico Amil. Facciamo ottimi acquisti (fittoni, teli d’emergenza,…) e proseguiamo alla ricerca dell’olio d’oliva (irrinunciabile per noi italiani!), frutta secca e vari generi di conforto per le lunghe giornate al campo. Le condizioni igieniche in tutti i negozi sono altamente precarie e troviamo strati di polvere e sporco su ogni flacone di sapone o sui prodotti meno frequentemente venduti. La costante è che ogni negoziante, dopo un acquisto consistente, ci offre una bibita da bere per rinfrescarci. Marcello, Gianluca e io non sappiamo resistere alla tentazione di comprare alcuni succosissimi frutti di mango, sapendo che per un mesetto buono ci scorderemo la frutta. Mi rendo conto di essere un buon contrattatore (forse grazie alla mia indole comunicativa e alla lunga esperienza di viaggi in Asia), per cui d’ora in poi sarò ingaggiato per siglare gli acquisti comuni. Lungo la via principale di Skardu incontriamo un pakistano di nome Ku, che ci dice di aver partecipato a varie spedizioni negli anni passati. “Ho notato che voi e altri uomini avete le unghie tinte della mano destra, mi puoi dire cosa significa?” domando con curiosità. Ku risponde che è costume che ogni uomo sposato, in occasione dell’anniversario della nascita di Maometto, si tinga le unghie della mano destra.

La mattina del giorno dopo curiamo gli ultimi dettagli. Finalmente siamo pronti per partire, seguendo le sponde dell’Indo e poi del Saltoro in direzione Karmanding. Daniele è febbricitante e ha passato la notte in bianco. Abbiamo cinque jeep: tre sono caricate con il nostro materiale, le provviste e le tende da campo base e vi viaggiano Alì, l’ufficiale di collegamento, il cuoco e l’aiuto-cuoco. Sulle altre due ci stipiamo tutti noi. Tom ed io facciamo i test delle radiotrasmittenti, per verificarne la portata. Facciamo allontanare una delle due jeep di vari chilometri. “Tom, can you hear me?” “Yes, sir”. “Can you ping me every 15 seconds? I’ll give you an acknowledgement if I hear you”. ”Ok, Roger”.

Usciti da Skardu, risaliamo le sponde dell’Indo. Inizialmente attraversiamo campi brulli intervallati da piccoli villaggi di case fatte di pietra e, soprattutto, mattoni di fango. Muri a secco si snodano al bordo della strada, che in alcuni punti è semiafaltata. Di tanto in tanto, occhieggiano ai bordi “cartelli pubblicitari”: non sono altro che affreschi o sculture sulla pietra di alcuni massi. Noto che tutte le auto che incrociamo guidano in mezzo alla strada e sembra sempre di rischiare il frontale. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che nel passato vi sono stati molti incidenti, in cui svariati mezzi sono precipitati nei dirupi (la strada percorre l’argine destro del fiume). Ragion per cui i local hanno preso l’abitudine di guidare al centro per essere più conservativi. Le sponde del fiume diventano sempre piu’ scoscese, poi a un certo punto la carrozzabile prende descisamente la destra e inizia a costeggiare il fiume Saltoro.

Arriviamo a un primo ponte sul fiume, da cui parte la strada che va ad Hushe. Siamo nei pressi del primo posto di blocco. Daniele deve scendere dalla jeep a firmare alcuni documenti, insieme all’ufficiale di collegamento, affinché ci lascino passare. In seguito incontriamo un altro posto di blocco. Questa volta siamo sotto il tiro di un mitragliatore modello MG (a detta di Pierluigi, che ha un’esperienza decennale al poligono di tiro), che ci osserva sospettoso da una torretta. Ci intimano di non fare più fotografie da quel momento in poi. Dopo 45 minuti di attesa in cui Alì parla con i militari, ci fanno passare.

Il paesaggio cambia considerevolmente e diventa molto vario. Entriamo in una valle dove ci sono aree molto verdi e lussureggianti, nei punti in cui l’acqua del fiume è stata deviata e canalizzata. Sembrano oasi nel deserto. Incontriamo anche tantissime coltivazioni di albicocche. Rimaniamo colpiti dalla totale assenza di coscienza ambientale del nostro guidatore, che non si fa scrupolo di gettare bottiglie vuote di plastica fuori dal finestrino, dopo averle tracannate. Non possiamo fare a meno di provare a fargli capire che è sbagliato.

In serata arriviamo a Tagas, dove Alì trova una casa in cui possiamo fermarci per la notte e per il giorno dopo. Neanche Alì è sicuro che con le jeep si riesca ad arrivare al luogo ottimale dove allestire il campo base. In particolare, temiamo che il termine della strada sia ancora troppo lontano dalle pareti che ci interessano. Per questa ragione, prevediamo già la possibilità di allestire un campo temporaneo al termine della strada, mentre Alì potrebbe tornare a Karmanding per reclutare portatori. L’idea è che, nel mentre che i portatori arrivano, noi esploriamo l’area circostante per identificare il luogo ottimale dove piazzare il campo base.

Sperimentiamo tutti una sensazione di sospensione. Dobbiamo forzatamente attendere a Tagas, mentre il nostro cervello si arrovella sull’ignoto che ci aspetta: come saranno le pareti? Lo zero termico sarà troppo alto? Incontreremo più tratti di roccia o di misto? Il campo base sarà troppo basso? Nella nostra frenetica vita metropolitana occidentale non siamo abituati a vivere la dimensione della sospensione. Chi ha già fatto spedizioni esplorative mi conferma che questa e’ una dimensione che si vive costantemente durante i lunghi avvicinamenti (necessari per un buon acclimatamento) e che è  importante perché permette di assaporare l’inizio dell’avventura. Ad ogni modo, per stemperare questo sentimento, dopo una breve colazione Tom, Kate, Cuen e io decidiamo di andare a fare una passeggiata al fiume sottostante. Ci scorta un ragazzo, di nome Sagit Alì, del commando anti-terrorismo, armato di un Kalashnikov AK47. Arrivati al fiume notiamo che una grande parte dell’alveo è fangosa. Sagit ci spiega che ciò è dovuto al fatto che di mattina il livello del fiume si abbassa perché il ghiacciaio di notte si scioglie di meno, mentre di pomeriggio/sera il livello si alza a causa del maggiore scioglimento. Decidiamo di sfruttate la situazione e di giocare a bocce, lanciando pietre tonde sulla battigia fangosa! Al ritorno per pranzo sentiamo il Muezzin che richiama i fedeli alla preghiera. Sagit ci spiega che ciò avviene in tre momenti della giornata: alle quattro  di notte, all’una  e alle cinque del pomeriggio. “Ecco cos’era tutto quel salmodiare a notte fonda che ci aveva svegliato al K2 hotel!” penso tra me e me…

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