Storia dell'alpinismo

Cassin e la Sud del Mount McKinley (3)

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Sono le 23 del 19 luglio 1961. Cassin e la spedizione di giovani talenti dell’alpinismo italiano sono in vetta ai 6.194 metri della montagna più alta del Nord-America. Il Mount McKinley. La temperatura è polare e sta per diventare buio. Occorre scendere subito…

Ma appena sotto le roccette sommitali Jack Canali inizia a stare male. Conati di vomito lo scuotono dalla testa ai piedi. E poco dopo Cassin se lo vede precipitare di fianco lungo il pendio. Un solo gesto, la piccozza piantata e l’amico è salvo. Ma la discesa è lunga e faticosa, e le sue condizioni preoccupanti.

Come se non bastasse, infatti, il gelo si è fatto ancora più intenso e Canali, già debilitato, è il primo ad accusare segni di congelamento agli arti inferiori. Sintomi che di li a poco accusano tutti quanti, ad eccezione di Gigi Alippi che calza le scarpe di renna.

Alle sei del mattino la spedizione giunge a campo 3, mentre incomincia a nevicare. Si dovrà trascorrere qui la notte, lottando contro il gelo. Ci si massaggiano i piedi per riattivare la circolazione, si tenta di stare coperti con quello che si ha a disposizione, ma la situazione cambia di poco.

La notte sembra così infinita. Canali si lamenta nel sonno e i suoi piedi sono gonfi e bluastri. Intanto nevica. E continua fino al mattino, costringendo tutti all’immobilità fino alle 11.

Ed prima di ricominciare a scendere un gesto d’altri tempi. Canali ormai fatica a sentire i piedi, che perdipiù non entrano negli scarponi. Unica soluzione sono le scarpe di renna di Alippi, che gliele consegna prontamente. Costringendo se stesso a scendere sulla neve solo con 4 paia di calze e le sovrascarpe. Non potendo quindi calzare i ramponi.

La strada verso campo 2 diventa un supplizio. Sui pendii di ghiaccio deve letteralmente essere trattenuto di peso. E nel frattempo ha sfasciato anche le sovrascarpe. I voli si susseguono ma per fortuna c’è sempre qualcuno che ha ancora forze necessarie per trattenere gli altri.

E continua a nevicare. In qualche modo gli alpinisti giungono a campo 2. E l’insistenza di Cassin finisce per convincere tutti: di corsa fino a campo 1, senza perdere altro tempo. Canali potrebbe non riuscire più ad appoggiare i piedi. E c’è ancora una cresta affilatissima da superare.

Dopo ore che sembrano infinite, a tentoni nella nebbia, con la neve fino alle ginocchia, finalmente il campo. Dove potersi fermare a dormire. Ma la notte non è certo di riposo, il combustibile infatti è pressochè finito e la quantità di neve sciolta irrisoria. Le provviste sono finite ormai da tempo.

L’alba del nuovo giorno è terribilmente simile a quelle dei due appena passati. Nevica e la visibilità è ridottissima. Il gelo attanaglia le corde fisse che scendono al base e le riempie di ghiaccio. I canali sono carichi di neve e scaricano continuamante.

Una di queste slavine colpisce Cassin in pieno, risparmiandolo, ma privandolo dei ramponi. Senza il quale la discesa si fa sempre più faticosa. Ma la tenacia non è certo una dote che manca ai forti italiani, e il campo base sembra quasi un miraggio una volta raggiunto.

E sarà l’ennesima notte di dolori. Per Canali ma un pò per tutti. Con una novità però: dopo 75 ore ininterrotte di nevicata la mattina dopo splende il sole. Don Sheldon, il pilota dell’aereo, viene accolto come un salvatore e Canali è subito caricato e portato in ospedale. Se la caverà con qualche settimana di degenza.

Tutti gli altri restano al base. Con il bello si deve salire ai tre campi a raccogliere il materiale. Un pò malconci si, ma con nell’animo la gioia per l’ennesima impresa di un capocordata eccezionale come Riccardo Cassin. 

 
 
Massimiliano Meroni

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