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26 marzo 1953. La sosta a Tengboche: meraviglia, lavoro e problemi con gli Sherpa

Quarta puntata dello Speciale "Everest 1953"

Per i trekker di oggi, l’arrivo al monastero buddhista di Tengboche è un momento di svolta. L’aria inizia a diventare sottile, l’Everest, il Nuptse, il Lhotse e l’Ama Dablam sembrano a portata di mano. Settant’anni fa per il team di John Hunt succede qualcosa del genere. Dopo l’interminabile viaggio da Londra al Nepal, dopo i difficili giorni a Kathmandu, dopo la lunga e torrida scarpinata da Bhaktapur fino al Khumbu, l’arrivo sul prato di Tengboche segna il punto in cui si inizia a fare sul serio. Dai bagagli escono tende, corde, ramponi, piccozze, respiratori e bombole, le uscite delle due settimane successive si svolgono su ghiacciai. Per la seconda volta, l’atteggiamento “coloniale” nei confronti degli Sherpa crea problemi. Ma poi si riparte, verso il campo-base, la seraccata e la vetta.

Ai primi di aprile del 1953, un giornalista britannico percorre il sentiero che unisce Namche Bazar con Tengboche. Poco dopo aver lasciato il villaggio, scopre davanti a sé la cima più alta della Terra. “Se lo avevo visto durante la camminata non lo avevo riconosciuto. Ora era lì, una grande cosa a forma di cono storto, al tempo stesso grumoso e angolare” scrive James Morris, l’inviato del Times che segue la spedizione di John Hunt. “Dalla cima dell’Everest soffiava una piuma di neve, come una bandiera sfoggiata. L’atmosfera era magnifica, la luce diffusa da una nebbia leggera. Mi sembrò che il Chomolungma, come gli Sherpa chiamavano la nostra montagna, attendesse il nostro arrivo con un cupo atteggiamento di sfida” prosegue il cronista arrivato da Londra. Poche ore prima, Morris ha scoperto in un edificio di Namche la radio che gli consentirà di inviare la notizia della vittoria in patria. Ora invece deve faticare.

Oltre il ponte di Phunki, che all’epoca è una traballante struttura di legno e pietre, il sentiero diventa “sgradevolmente ripido”, e la quota “è sufficiente per colpire il forestiero non abituato a queste altezze”. Morris fatica, si ferma spesso per bere, si sente preso in giro ogni volta che “degli Sherpa sorridenti scendono di corsa lungo il sentiero” e lo “guardano con aria curiosa”. Ma poi, quando la salita finisce, il prato di Tengboche ripaga della grande fatica. Il monastero “molto sacro per i Buddhisti della zona”, “è uguale per santità a quello di Rongbuk, sul versante tibetano dell’Everest”. Sullo sfondo si alzano “le vette dell’Himalaya, simili a divinità guardiane, che danno alla scena drammaticità e bellezza”. Qui, l’inseguimento del giornalista arrivato da Londra finisce. James Morris, dopo Kathmandu e il lungo trekking da Bhaktapur fino al Khumbu, viene accolto da un uomo “dal volto scuro e dal sorriso luminoso”Tenzing lo accompagna nel campo dove l’attività è febbrile. “Avevo raggiunto la spedizione” annota James nel suo diario.

Il monastero di Tengboche (nei vecchi testi si trova spesso Thyangboche) sorge su un pianoro erboso a 3867 metri di quota, circondato da una fitta foresta che scende verso le acque tumultuose dell’Imja Khola. Come molti monasteri europei, quello di Tengboche sembra un edificio senza tempo. Invece è stato fondato poco più di un secolo fa, nel 1916, da un monaco, il lama Gulu, arrivato dal monastero tibetano di Rongbuk. Nel 1934 i dormitori e la grande sala di preghiera di Tengboche, con le grandi statue dorate del Buddha Sakyamuni, della dea Manjushri e di Maitreya, vengono abbattuti da un violento terremoto, e poi ricostruiti. La seconda distruzione, nel 1989, è causata da un incendio. A permettere la nuova ricostruzione sono l’opera di volontari che arrivano da tutto il mondo e i fondi raccolti da Sir Edmund Hillary. E’ uno degli ultimi doni che il neozelandese fa alle valli dell’Everest e agli Sherpa.

I primi alpinisti europei a vedere e descrivere Tengboche, nell’autunno del 1950, sono l’inglese Bill Tilman e lo statunitense Charles Houston, in marcia verso il ghiacciaio del Khumbu. La descrizione, oggi celebre, del monastero come “uno dei luoghi più belli del mondo”, si deve al colonnello John Hunt, che arriva qui il 26 marzo del 1953, alla testa della spedizione. Anche l’ufficiale che dieci anni prima ha combattuto in Abruzzo dedica parole commosse alla bellezza del luogo. Riflette sull’“apparenza stranamente medievale” del monastero, ammira l’Ama Dablam, “assolutamente inaccessibile (in realtà verrà salito otto anni dopo, nel 1961, ndr) e che rivaleggia nei suoi aspetti più sensazionali con il Cervino. Hunt assiste divertito a una sceneggiata in cui un anziano monaco mostra “raspando nel terreno”, “giocando con una palla di neve” ed “emettendo dei convincenti grugniti” il comportamento di uno Yeti comparso nell’inverno precedente a Tengboche. Poi offre una donazione all’abate, e gli chiede di benedire gli alpinisti.

Nel suo libro La conquista dell’Everest, John Hunt racconta il clima febbrile di quei giorni. Per prepararsi e acclimatarsi, la spedizione ha circa tre settimane, fino al 20 aprile, poi l’assalto all’Everest potrà iniziare. Sul prato vengono montate “tutte le tende, circa venti, di forma, misura e colori diversi”, una scala di alluminio piazzata tra due macigni permette a Sherpa e alpinisti di prepararsi a superare i crepacci dell’Icefall. Il cuoco Thondup dirige la cucina, Tom Bourdillon e il medico Michael Ward danno lezioni sull’uso dei respiratori a ossigeno, Edmund Hillary insegna come usare i fornelli Primus, George Band fa lo stesso con le radio portatili. Un giorno viene acquistata una pecora per la cena, ma gli Sherpa, “da bravi buddhisti, non la vogliono ammazzare, così tocca a George Lowe fare il macellaio”.

A Tengboche, dopo i litigi sulle sistemazioni a Kathmandu, scoppia una nuova (e potenzialmente fatale) grana con gli Sherpa. Nelle spedizioni precedenti, all’Everest e su altre vette himalayane, il vestiario e il materiale fornito ai portatori d’alta quota sono rimasti di loro proprietà, incrementando di fatto la paga. Un uso che, con rare eccezioni, si è mantenuto fino a oggi. Nel 1953 invece, quando gli Sherpa ricevono ramponi, piccozze e giacche di piumino si sentono dire che li dovranno restituire al ritorno. Il risultato è uno sciopero immediato. Quando Tenzing cerca di placare gli animi, viene attaccato anche dai suoi connazionali che lo considerano al soldo degli inglesi. Alla fine si arriva a un accordo ma due degli Sherpa, Ang Dawa e Pasang Phutar, lasciano la spedizione. Il secondo, nelle parole di Tenzing è “il vice-sirdar, e un uomo capace e intelligente”. Dal primo giorno, però, Pasang “ha fatto il politico e il sindacalista”, e questo ha creato seri problemi. Dopo la sua partenza, lentamente, l’atmosfera migliora.

Nelle prime settimane di aprile, dedicate all’acclimatazione, gli alpinisti si dividono in tre gruppi. La squadra di Hillary compie il periplo del Taweche, una elegante vetta nevosa, salendo due belle cime vergini. Il gruppo di Charles Evans si spinge verso la base dell’Ama Dablam, e si dedica a testare a fondo i respiratori. Il team diretto da Hunt sale nella valle dell’Imja Tse, dominata dal Lhotse e dal Nuptse, e compie la prima salita di una cima che viene battezzata Chukhung Peak. Qui il capospedizione si lega per la prima volta in cordata con Tenzing. “Mi ha mostrato le sue capacità di alpinista, e mi ha fatto vedere che era già più acclimatato degli altri. E’ stato un buon auspicio per il futuro” scriverà Hunt. Il 5 aprile i tre gruppi si ritrovano a Tengboche, e festeggiano la fine della preparazione intorno a un enorme fuoco da campo. Siamo diventati amici, abbiamo imparato a fidarci delle capacità tecniche degli altri” annota il capospedizione. “Ognuno di noi si stava divertendo come in una vacanza sulle Alpi. Era molto importante, perché più avanti ci sarebbero state molte occasioni per annoiarci”.    

Qui la prima puntata. 

Qui la seconda puntata.         

Qui la terza puntata.

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