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La seconda tappa narrativa di Gasca, in viaggio sugli Appennini

dsc_0229MARZABOTTO, Bologna — Gian Luca Gasca prosegue il suo viaggio attraverso gli Appennini. E’ partito la settimana scorsa dalla Liguria per raggiungere le Madonie, in Sicilia. Ecco il suo racconto:

Il sole tramonta su Monte Sole mentre Federico versa il Pignoletto. “Devo venire una volta su a tagliare le acacie, rovinano il panorama” sentenzia mentre sorseggiamo il bianco e aspettiamo che il sole lasci il posto al cielo stellato. Davanti a noi una distesa sterminata di boschi, arrivano a toccare anche le vette più alte. Oggi sono deserti, se non per il grufolare di qualche animale selvatico ma, se ci fossimo capitati settant’anni fa sarebbe stato un brulicare di uomini. Partigiani che si nascondevano nei boschi. Qui il cielo è aperto, ispira alle montagne himalayane e anche la casa profuma di esotico. Si sente il sapore dell’aria rarefatta.
A buio fatto siamo ormai in un altro mondo. Lo sapevo che qui l’Appennino sarebbe sembrato lontano come mai. Questa casa ha il potere di portarti in terre estreme, l’ha fatta costruire Alfonso, il nonno di Federico mentre era al Dhaulagiri nel 1976 mi racconta il nipote con gli occhi che brillano “vieni – prosegue – voglio farti vedere i libri, le foto, le diapositive, i materiali.” Questa casa è un tempio dell’alpinismo mondiale. Non sono più sull’Appennino, sono finito in Himalaya, ma appena Federico apre un cassetto atterro sulle Ande; lo chiude e finisco nell’Africa nera.
Il materiale è conservato in modo casalingo, non c’è una catalogazione museale ma c’è tanta passione per non far scomparire la memoria di Alfonso Bernardi. Purtroppo parte del materiale è però andata perduta mi racconta il curioso nipote dello storico. “C’è stato un incendio mentre io e mia moglie eravamo all’osteria qui sotto” mi porta in soffitta “Vedi, qui è tutto nuovo, sono riuscito a salvare solo una parte del materiale che c’era”. Dopo l’incendio Federico ha passato giorni a vagare per i boschi attorno alla casa, “raccoglievo i frammenti dei libri del nonno”, anche i tizzoni superstiti precisa.
dsc_0224Fuori il buio è totale, la casa è in un borgo appenninico dove neanche i ladri si avventurano. È uno di quei posti dove non ti fermi manco per sbaglio, ci finisci solo se ti perdi. Eppure da qui sono passati Bonatti, Diemberger, Maraini. “Il nonno ha scelto questo posto per il panorama. Pensa che questa non era neanche una casa, era un vecchio fienile, poi l’ha fatto trasformare.” Aggiunge mentre ci muoviamo di camera in camera finché si blocca di colpo con un machete in mano: “Guarda” mi fa “questo era di Carlo Mauri”.

La sera alla Ca’ Guidotti, che bel nome non può che essere d’Appennino, sediamo davanti a una rustica e abbondante grigliata. Oltre a noi solo un altro tavolo è occupato ma, mi assicurano, “durante i weekend è sempre pieno”.
Federico parla di Himalaya ma ora io voglio sapere della strage nazista, di Marzabotto. Ieri sono stato in paese e il memoriale era chiuso, come anche bar e osterie. Il lunedì è il giorno del riposo. Per strada ho trovato solo un vecchio che con tono pacato mi ha ammonito “che viene a fare qui? Ormai vengono pochi visitatori, la gente si ricorda cos’è successo solo il 25 aprile quando affollano il paese e cambiano le corone di fiori”.
Quel vecchio, uno di quelli che di sicuro critica i giovani perché stanno troppo tempo su internet, alla fine troverebbe la sua verità proprio li sopra, sui social. Chissà quanto avrebbe da dire su “#jesuis” o, per essere attuali, sugli amanti del teatro di Dario Fo o della canzone di Bob Dylan. Sarebbe il perfetto “pontificatore” da social network.
dsc_0225A portare il discorso sul genocidio ci pensa l’oste che interviene “devi leggere le parole di Don Zanini se vuoi sapere la verità su Marzabotto. Ora non c’è più, ci ha lasciati l’anno scorso ma ha scritto un libro, si chiama Marzabotto e dintorni, racconta la verità su quello ce han fatto i partigiani qui attorno.” Chiedo cosa facevano i partigiani: “toglievano il pane alla gente.” risponde “Ma non lo scrivere questo, non sono cose da raccontare” fa ridendo. In effetti è sempre un argomento delicato quello dei partigiani, soprattutto in paesi che hanno vissuto le rappresaglie naziste ma, spesso mi domando chi siano stati questi partigiani. Non ne ho mai conosciuti di persona. Ho avuto a che fare l’ANPI ma trovo che centrino sempre meno con il movimento originario.
La domanda, la voglia di capire chi siano stati realmente questi uomini che hanno vissuto nei boschi esposti alle intemperie per mesi, se non anni continua a tartassarmi anche a fine serata. Devo trovare qualcuno che mi aiuti a risolvere il quesito e per farlo faccio un paio di telefonate che mi portano da quello che Rumiz ha soprannominato, in un articolo di Repubblica, “Lo spazzino d’Appennino”: Umberto Magnani. Classe 1947 Umberto è un ex elettricista oggi in pensione. Quando arrivo lo trovo seduto al suo tavolo, al centro del garage riadattato a microscopico museo dedicato alla Winter Line, la linea d’inverno che ha bloccato gli alleati durante la risalita della Penisola.
Quando si arriva a Livergnano si trovano indicazioni per qualsiasi tipo di attrazione turistica tranne che per questo piccolo e dimesso museo di storia vissuta. Tre tavoli e un paio di vetrine contengono tutto il materiale raccolto e donato dal periodo del boom economico (prima i residui bellici erano recuperati e riutilizzati per scopi civili) fino a oggi. “Gli ultimi reperti me li hanno portati una settimana fa” racconta cercandoli per mostrarmeli e raccontarmi la storia di questi articoli. A me sembrano semplici chiodi arrugginiti ma Umberto ne tira fuori una storia incredibile e poi inizia a raccontare la Linea Gotica, l’attesa, lo sfondamento, la vita del generale Clark e i complotti segreti finché mi invita nel suo ufficio e, finalmente, sfruttando un momento di silenzio riesco a fare la mia domanda “Chi erano i partigiani?” Non risponde subito, come ha fatto fino ad ora. Ci riflette, sistema delle carte ammucchiate sulla scrivania poi mi guarda fisso negli occhi. “I partigiani?” inizia “bisogna capirsi, per me è partigiano anche quello che fa il lavoro d’ufficio” sorride “quello che aiuta gli americani a identificare le foto aeree. Io qui ho dei documenti di alcuni partigiani” dice mentre si alza per cercarli in una vecchia cassettiera. “Sarebbe riduttivo pensare al partigiano solo come quello che se ne sta con il fucile nei boschi. Erano ribelli, uomini di principio che magari hanno sbagliato ma almeno hanno provato a fare qualcosa.”

Vorrei rimanere di più con Umberto ma purtroppo gli orari degli autobus scandiscono il mio tempo come sabbia in una clessidra. Non ne passano molti da Livergnano, frazione di Pianoro e sono costretto a salutare lo “spazzino d’Appennino” con la promessa di tornare durante l’inverno.
Un dubbio però mi rimane: chi sono i partigiani? Qualcosa in più l’ho scoperto ma non ho una vera risposta. Forse lo scoprirò più avanti, l’Appennino è un formicolare di storie corsare, magari sarà il più famoso di tutti, l’uomo che in sella ad una bici portava messaggi e provviste, a fornirmi la soluzione del quesito.

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