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Alta Quota: sperimentando un nuovo approccio per l’alpinismo himalayano?

Adrian Ballinger e Emily Harrington sono tornati a casa in California esattamente due settimane dopo essere partiti per il Cho Oyu e averne raggiunto la vetta a 8201m.

La rete si è impossessata della loro felicità e della loro speedy salita annoverandola come risultato di un metodo nuovo di acclimatamento, utile ad evitare o accorciare significativamente il tempo al campo base e sulle montagne. Insomma, se per tre mesi pedali e ti alleni un paio d’ore al giorno dentro una tenda ipossica installata in casa, che ha all’interno una quantità di ossigeno come se ti trovassi attorno ai 3.500 metri, quando arrivi al campo base vero sei già in gran forma e vai su sulla montagna come una scheggia. Avvantaggiandosi poi delle sempre più affidabile previsioni meteo, è possibile scegliersi le giornate di vetta e, come hanno fatto Adrian e Emily, in un paio di settimane andare e tornare da casa, sia essa a Squaw Valley o a Milano. Non che ai due spiaccia starsene lungo i sentieri e sulle montagne dell’Himalaya o del Karakorum, ma facendolo per mestiere, in quanto accompagnano clienti, e vivendo di avventura e comunicazione passano sempre più tempo fuori, circa metà dell’anno, e dunque da qui la scelta di sperimentare un pre-acclimatamento casalingo, che di fatto accorci i tempi delle “spedizioni”.

Adrian Ballinger e Emily Harrington

C’e poi un vantaggio competitivo commerciale al quale l’agenzia Alpenglow di Lake Tahoe è felice di aderire. Se un “ottomila” costa al cliente da 35 a 50.000 dollari per servizi forniti per una durata di 35/45 giorni, ovvio è che ridurre i tempi e i relativi costi operativi, di gestione e personale può consentire di ridurre il prezzo e l’appetibilità del “prodotto”. Mica per nulla la spedizione viene definita e venduta come “rapid ascent”.

“Normalmente, gli alpinisti attrezzano campi e fanno tentativi successivi. Noi abbiamo portato tutta l’attrezzatura per un unico tentativo. I nostri zaini erano pesanti. È stata una salita e discesa consumata in 18 ore” ha detto Ballinger. I due sono infatti arrivati al campo base e poi sono saliti a 6700 m e, grazie al loro regime di allenamento (la preparazione e l’uso di tende ipossiche per i mesi prima della partenza del loro viaggio), hanno potuto ottenere questo risultato.  L’arrivo in vetta ci raccontano essere stato un momento magico, senza vento e con un gran sole, una gran felicità, poi una bella discesa con gli sci, in più poca gente sul percorso. La massa era salita il giorno prima e loro si erano potuti permettere l’attesa di un giorno.

Ora, Adrian Ballinger e Emily Harrington sono due giovani, belli, tenaci, capaci alpinisti (lui plurisalitore di ottomila), arrampicatori di certa bravura e l’avventura estrema è la loro vita: “dentro” questo mondo ci vivono e accompagnano clienti appassionati e paganti. Hanno anche una gran dimestichezza con la comunicazione ed il loro pubblico è formato prevalentemente da giovani lettori delle riviste Outside e National Geographic, ma anche Vogue, tanto che Ballinger ha raccolto una quantità impressionante di pubblicità nei media per il suo Everest di questa primavera.

Detto tutto questo, l’acclimatamento in camera ipobarica non è certo una novità per l’alpinismo e per lo sport. Il prof. Paolo Cerretelli, uno dei massimi esperti mondiali di fisiologia del movimento e dell’alta quota, ma anche alpinista che per anni ha seguito spedizioni in Karakorum e Himalaya, lo scrive e racconta da sempre. Qualcuno l’ha anche praticata questa tecnica. E non sono mancati gli esperimenti in occasione di olimpiadi in quota come quelle di Città del Messico.

Tenda ipossica. Photo: Svíčková / Wikimedia Commons

Ora bisogna capire se questa sia una nuova frontiera, il superamento di un’ulteriore barriera, come vorrebbero far accreditare questi fautori delle “spedizioni veloci”. Hanno in parte ragione a dire che cinquant’anni fa le spedizioni all’Everest o al K2 avevano lunghissimi tempi di approccio verso le montagne, che duravano mesi. Già oggi i tempi si sono compressi a 35/40 giorni e tutti lo considerano normale. Un’ulteriore riduzione dei tempi grazie a tecniche di allenamento e acclimatazione parrebbe cosa inevitabile.

Appurato poi che per opinione sempre più diffusa l’ossigeno supplementare utilizzato per salire a ottomila metri è di fatto doping, va compreso come questa nuova pratica di allenamento sarà considerata. Ma non pare ascrivibile a questa categoria.

Di fatto siamo di fronte ad una tecnica di allenamento e acclimatazione artificiale che precede la prestazione alpinistica vera e propria. Da campo base alla vetta poi l’alpinista sale con le sue gambe, cuore e cervello senza altro supporto e dunque la scelta del pre-acclimatamento o dell’acclimatazione tradizionale dipende esclusivamente dalla voglia del singolo alpinista di rimanere più o meno tempo in giro per montagne.

Un simpatico commento trovato in rete pare riassumere l’opinione dei tradizionalisti: “Non sono sicuro di cosa siano i centri d’alta quota (a Londra esiste un centro di allenamento in condizione di ipossia n.d.r.), ma riferendomi ai metodi domestici di simulazione artificiale della mancanza di ossigeno, in modo che non ci sia bisogno di spendere troppo tempo sulle montagne per acclimatarsi (inalazione di elio quattro volte al giorno, andare a letto con un sacchetto di plastica in testa, imparare a suonare la cornamusa con una molletta da bucato sul naso,ecc) non posso essere d’aiuto, non ho alcuna esperienza. Preferisco di gran lunga acclimatarmi all’aria aperta, in montagna, assicurandomi che le mie spedizioni dispongano sempre del tempo sufficiente per l’acclimatamento”.

 

(Fonte: markhorrell.com)

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