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Racconto ed emozioni di una ritirata a 7200 metri del Cho Oyu

Antonio Magliacano al Cho Oyu (Photo fb Antonio Magliacano)
Antonio Magliacano al Cho Oyu (Photo fb Antonio Magliacano)

Mi chiamo Antonio Magliacano e sono da poco tornato da una spedizione sul Cho Oyu. Non sono più un ragazzino (ho 57 anni) e questa “avventura” è stata per me un viaggio incredibile, non una semplice scalata ma un vero e proprio percorso nel profondo di me stesso. Ho buttato giù due righe nelle quali ho condensato i momenti più forti della mia esperienza.

1 ottobre 2014, ore 17:00 circa, arrivo stremato al campo 2, a 7.200 m di quota. Il programma secondo Pemba, il mio sherpa, è quello di riposarci un po’ per poi partire in serata verso la vetta. No, non ce la faccio assolutamente! La salita dal campo 1 al campo 2 mi è costata una fatica enorme e quindi si rimanda a domani. La giornata del 2 ottobre passa pigramente e lentamente anche se, a oltre 7.000 m, solamente nel cercare di mangiare non c’è niente di pigro, qualsiasi movimento e qualsiasi minima attività risultano faticosissimi. La sera siamo chiusi nella tenda nell’attesa che un forte vento a raffiche cali un po’ e ci consenta di partire verso la vetta; il vento improvvisamente si calma ma sono ormai le 22:30 e Pemba sentenzia: “troppo tardi, si rimanda a domani”. Altra giornata lunga e noiosa in attesa della sera. Ore 19:30, il tempo è ottimo, niente vento, niente nuvole, inizia la vestizione.
Alla fine, chiuso nel tutone d’alta quota, scarponi e ramponi ai piedi, sono stremato ancor prima di partire. Ore 21:00 iniziamo a salire verso la vetta.

E’ subito durissima, ogni singolo passo pesa come un macigno, inizio seriamente a pensare che non ce la farò mai. E’ bene precisare a questo punto che, sin dall’inizio, io ed i miei compagni di scalata avevamo deciso e stabilito che il tentativo di salita verso la vetta sarebbe stato fatto senza l’utilizzo dell’ossigeno ausiliario e questo proprio nello spirito di sperimentare ed accettare i propri limiti; non ci interessava mettere una bandierina dove molti altri l’avevano ormai già messa da tempo, ci interessava arrivare sin dove il nostro fisico, la nostra mente, la nostra volontà ci avrebbero consentito di arrivare.Pemba insiste perché utilizzi l’ossigeno (ne avevamo una bombola per emergenza medica), provo a mettere la maschera, mi da un fastidio cane, me la sposto per respirare l’aria “vera” con le narici, Pemba si arrabbia, non fa per me, l’ho già detto, non accetterò mai di arrivare in cima con l’ossigeno.

Facendo queste prove, questi ragionamenti e queste considerazioni, siamo ormai vicinissimi al campo 3, a circa 7.500 m, io sono ormai convinto che il mio limite è quasi raggiunto, sono un po’ deluso e mi sto consultando con Pemba per decidere quanto continuare ancora, se raggiungere il campo 3 e riposare un paio d’ore per poi, eventualmente, salire ancora un po’, quando improvvisamente, come un violento schiaffone, mi esplode nella mente un ordine preciso e perentorio: torniamo giù, adesso, immediatamente! Pemba mi guarda un po’ sorpreso, io stesso sono sorpreso da questa mia assoluta determinazione ma non ci sono discussioni, si deve scendere, subito!!! Circa un’ora e mezza per raggiungere il campo 2, per poterci infilare nella nostra tenda, per toglierci ramponi e scarponi, per accendere il fornello e iniziare a preparare una zuppa calda quando, all’improvviso, iniziano una, due, tre raffiche di vento, sempre più forti, sempre più frequenti e minacciose.

Nel giro di pochi minuti si scatena una vera e propria tempesta di vento e di ghiaccio con raffiche a 80 km/h e temperature percepite di -40°C.
Rabbrividisco, sono incredulo e spaventato, se qualche ora prima lì, sulla montagna, la decisione di tornare immediatamente indietro non mi avesse colpito come un violento pugno in faccia, ora saremmo in campo aperto in balia della tempesta e con scarse possibilità di sopravvivenza! Qualcuno mi ha avvertito, qualcuno ha avuto cura di me, qualcuno mi vuole veramente bene! La tempesta dura tutta la notte. La tenda si deforma in modo impressionante sotto le raffiche più forti e le aste che costituiscono la struttura portante arrivano a toccare le nostre teste. Rifletto su tante cose, mi soffermo, da ingegnere, ad ammirare la resistenza della tenda sotto quel carico spaventoso alternando, da uomo, una fottuta paura che quel guscio così leggero si possa, da un momento all’altro, strappare o addirittura sollevare con il suo carico di poveri alpinisti! Mi sorprendo a pensare, con una certa calma e serenità, che organizzare un viaggio così lungo mi ha costretto a sistemare, prima della partenza, tutte le faccende pratiche relative alla conduzione della casa e dell’azienda, lasciando a mia moglie tutte le informazioni necessarie per continuare agevolmente anche…senza di me! Notte d’inferno e la mattina la musica non cambia.

Antonio Magliacano al Cho Oyu (Photo Robadachiodi pafina fb)
Antonio Magliacano al Cho Oyu (Photo Robadachiodi pafina fb)

Al campo 2 siamo in sei, io con Pemba e un altro sherpa con un gruppo di tre iraniani uno dei quali, un ragazzo, si sente anche male. Dal campo base avanzato intanto, a quota 5.700 m, sono tutti in allarme perché, da sotto, si vede perfettamente la tempesta che interessa la zona in cui siamo. Iniziano a chiamarci con le ricetrasmittenti, chiedono notizie, vorrebbero organizzare soccorsi, ma che ti vuoi soccorrere? Non possono fare niente! Verso le dieci prendiamo il coraggio a due mani, usciamo dalla tenda e, piano, piano, inizia la faticosa discesa verso valle. La tempesta lentamente si placa, il vento diminuisce notevolmente, c’è il sole, c’è parecchio da scarpinare ma ormai è fatta! Al nostro ritorno, la sera, ci aspettano tutti fuori dalle tende, Giorgio, che ha seguito con grande apprensione tutta la vicenda, mi fa segnali con una lampada ed il primo che mi viene incontro è Luca Macchetto della Mountain Kingdom, con il quale eravamo stati in contatto via radio sin dal mattino, che mi chiede: “come va?” Ed io, in risposta, : “come si dice a Parigi, mi sono cacato sotto!!!”.

Nei giorni successivi mi sentivo a disagio. Mi svegliavo, uscivo dalla tenda e, girandomi, la guardavo. Era lì, bellissima, bella come quando me ne sono innamorato vedendola per la prima volta sulla foto di un articolo che parlava di spedizioni himalayane. Perché hai tentato di uccidermi? Perché mi hai rifiutato? Eppure durante le mie salite, in quella fatica immane, ho sempre recitato una serie di preghiere, utilizzate come un mantra che mi desse la forza e che, in qualche modo, mi proteggesse. Un Padre Nostro, un’Ave Maria e una preghiera alla Dea del turchese, al Cho Oyu, era questa la sequenza, il mantra. Ti ho pregato, ti ho rispettato, ti ho chiesto di lasciarmi salire, di poter sfiorare i tuoi fianchi e tu, tu hai tentato di ammazzarmi!
Perché? Questo disagio, questa tristezza, questa delusione di amante rifiutato mi ha accompagnato fino all’ultimo giorno in cui, arrivati gli yack da caricare, stavamo lasciando il campo base. Ho preso il mio zaino e ho iniziato a camminare, felice di tornare verso casa, deciso a dimenticare quando, all’improvviso, prima che lei sparisse definitivamente dietro le altre montagne mi sono girato, ho accennato un mezzo sorriso, l’ho salutata con la mano. Un gesto rapido, quasi frettoloso ma vero, sincero.

Più tardi, nel fuoristrada, sulla via di Zangmu, ho finalmente capito! La montagna non comanda il vento, la montagna è piantata a terra, è la terra, la montagna è nemica del vento, il vento la consuma, la corrode, la sgretola, la uccide giorno per giorno. La montagna mi ha protetto dal vento! Ha appesantito i mie passi, mi ha rallentato, ha risposto alle mie preghiere, mi ha amato come io ho amato lei, mi ha salvato la vita. Non l’ho conquistata, non l’ho violata, non l’ho posseduta ma forse è giusto così, è così che doveva andare perché l’amore, quello vero, non conquista, non viola, non possiede e mai può arrivare a svelare completamente il mistero profondo dell’essere che si ama.

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