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Global Change, i ghiacciai si difendono moltiplicandosi? Intervista a Claudio Smiraglia

Ghiacciai valtellina
Ghiacciai valtellina (photo courtesy spotmeteo.it)

MILANO – Secondo i dati raccolti dal Comitato Glaciologico Italiano, i ghiacciai italiani negli ultimi anni sono aumentati. Controtendenza? No: sono i ghiacciai esistenti che si frammentano. Ecco come Claudio Smiraglia spiega lo strano fenomeno che sta facendo discutere esperti e appassionati di clima e montagna. Lo abbiamo intervistato a seguito del convegno “Acqua, ghiacciai e cambiamenti climatici, tenutosi lo scorso martedì 27 novembre presso l’Università Statale di Milano organizzato dal Comitato Glaciologico Italiano in collaborazione con il Comitato Evk2cnr.

Professor Smiraglia, al contrario di quanto si possa pensare, sembra che il numero dei ghiacciai alpini stia aumentando piuttosto che diminuire, ci può spiegare come ciò è possibile?

In questa fase di regresso il numero dei ghiacciai alpini paradossalmente sta aumentando. Ciò è dovuto non alla formazione di nuovi veri  e propri ghiacciai, cioè masse di ghiaccio derivanti dal metamorfismo della neve e dotate di flusso, ma dalla frammentazione di quelli preesistenti. In realtà non è corretto definire “ghiacciai” questi frammenti, si tratta di placche isolate normalmente prive di flusso che possono sopravvivere anche per molti anni e che possono essere definite “glacionevati”.

Chi raccoglie questi dati?

I dati sull’evoluzione dei ghiacciai in Italia vengono raccolti e divulgati dal Comitato Glaciologico Italiano, ente oggi autonomo che ha sede a Torino, fondato dal Club Alpino Italiano nel 1895. Negli ultimi decenni al CGI si sono affiancati nella raccolta dei dati numerosi enti culturali, regionali e provinciali (ad esempio il Servizio Glaciologico Lombardo o il Comitato Glaciologico della SAT) con i quali il CGI opera in sinergia.

Claudio Smiraglia
Claudio Smiraglia

Con un efficace antropomorfismo, lei dice che i “ghiacciai ricoperti dai detriti è come se si difendessero dalla fusione”, cosa avviene nello specifico?

Con la riduzione della copertura glaciale e nevosa delle pareti, molte aree rocciose restano scoperte e subiscono gli effetti del crioclastismo, cioè delle alternanze gelo-disgelo. Questo provoca una maggiore disgregazione della roccia, i cui frammenti cadono sul ghiacciaio, ricoprendolo di detriti (“ghiacciaio nero”). Quando questi detriti coprono il ghiacciaio in modo continuo e raggiungono lo spessore di alcuni centimetri (nei settori inferiori dei grandi ghiacciai possono arrivare anche a2 m) la fusione viene rallentata in quanto l’energia termica solare non riesce a superare la barriera di detriti e il tempo di sopravvivenza del ghiacciaio può allungarsi.

Quali conseguenze hanno la fusione e il ritrarsi dei ghiacciai alpini sulla fauna e la flora d’alta quota?

Per rispondere in modo più preciso ho chiesto aiuto ai miei due giovani colleghi della nostra università,  dr.sa Irene Bollati e dr. Giovanni Leonelli. La progressiva fase di regresso dei ghiacciai alpini iniziatasi a partire dalla fine della Piccola Età Glaciale, seppur con alcune differenze legate alla tipologia di ghiacciaio, ha portato in molte vallate alla liberazione di vaste superfici, prima occupate dai corpi glaciali. In queste aree è in corso una ricolonizzazione da parte della vegetazione erbacea ed arborea che mostra nel tempo una progressiva diminuzione dei tempi di ecesi (cioè il tempo intercorso tra la liberazione della superficie e l’arrivo delle prime piante). In seguito all’installarsi della vegetazione, si hanno variazioni anche nel tipo di fauna che nel tempo si struttura in un ecosistema che include anche animali tipici del bosco. Diversa è la situazione che riguarda i ghiacciai coperti da detrito, dove non si registrano forti variazioni della posizione frontale nell’ultimo secolo, tuttavia possono essere colonizzati sulla copertura detritica da parte di flora e fauna, come nel caso esemplare del Ghiacciaio del Miage (Valle d’Aosta), in cui una foresta di larici cresce sopra al ghiacciaio e, come evidenziato da alcuni studi specifici, dove si sta assistendo alla colonizzazione da parte di specie di artropodi affini ad ambienti freddi.

Lei è spesso in alta montagna nelle vesti di alpinista oltre che di scienziato, come cambiano i tracciati con la fusione dei ghiacciai? Esistono già esempi di tracciati non più percorribili, che lei sappia?

Chiunque abbia percorso le montagne qualche decennio fa, si rende conto di quanto la situazione sia cambiata. La fusione dei ghiacciai vuol dire pareti nord che perdono la loro copertura di neve e ghiaccio e che si trasformano in ammassi di rocce pericolanti con qualche lingua verticale di ghiaccio vivo, vuol dire difficoltà di accesso ai valichi e ai rifugi, che oggi devono essere raggiunti spesso con vie attrezzate, vuol dire instabilità delle masse glaciali che vedono aumentare la loro crepacciatura e la ripidità dei loro seracchi, vuol dire riduzione dei bacini collettori dove qualche decennio fa restava la neve invernale su vaste superfici, mentre oggi a fine stagione la superficie dei ghiacciai è spesso totalmente in ghiaccio vivo. L’evoluzione dell’alta montagna sta accelerando e la sua pericolosità sta sicuramente aumentando, il che richiede una preparazione e un’attenzione sicuramente maggiori. Anche le vie normali di alta quota a fine stagione richiedono spesso tecniche alpinistiche. Non è infrequente ad esempio dover utilizzare chiodi da ghiaccio su itinerari ritenuti normalmente facili (penso al Cevedale, al San Matteo o alle normali dei grandi 4000). La percorribilità dei tracciati varia molto durante la stagione estiva anche in funzione della quantità di neve residua invernale. A proposito di tracciati non più percorribili, faccio un esempio non alpinistico. Il sentiero glaciologico dei Forni in alta Valfurva, sicuramente uno degli itinerari didattico-naturalistici più interessanti delle Alpi, fu realizzato nel 1995 e portava a visitare l’omonimo ghiacciaio con uno spettacolare giro ad anello. Dopo pochi anni la traversata del ghiacciaio diventò così ripida a causa del suo abbassamento e così pericolosa da sconsigliarne la frequenza. Oggi il ghiacciaio è talmente arretrato da avere liberato alla sua fronte una vasta fascia percorribile senza problemi che permette nuovamente, grazie anche all’installazione di ponti sospesi, di compiere questo itinerario classico dell’escursionismo naturalistico.

Da un punto di vista alpinistico, la fusione del permafrost porterà ad avere sulle nostre montagne una prevalenza di vie con roccia, come si dice in gergo, “marcia”?

Questo sta già avvenendo. La fusione del permafrost, cioè del ghiaccio interstiziale che cementa le pareti in alta montagna, sta accelerando a causa della risalita dello zero termico e dell’aumento del numero dei cicli gelo-disgelo. Gli effetti sono evidenti: crolli anche di intere porzioni di pareti con frane gigantesche o con continue scariche di sassi. In realtà si tratta del normale fenomeno di erosione delle montagne, che tuttavia dopo la calda estate del 2003 si è accentuato e accelerato e investe praticamente tutte le vie in roccia ad alta quota. Gli esempi potrebbero essere numerosissimi, basti ricordare il crollo di una cospicua parte del Pilastro Bonatti al Petit Dru.

I nostri figli possono ancora sperare di camminare sui ghiacciai?

Avranno certamente a disposizione le calotte polari e buona parte dei ghiacciai delle altre catene montuose dove in ogni caso il regresso glaciale è avvertibile. Sulle Alpi, in particolare quelle Italiane, dove il glacialismo è di piccole dimensioni, in meno di un secolo si è persa la metà della superficie dei ghiacciai. Il fenomeno è stato rallentato da alcune piccole fasi di ripresa, ad esempio negli anni venti e negli anni settanta –ottanta del secolo scorso, ma la tendenza di questo ultimo decennio è stata di una sensibile accelerazione del regresso, che ormai può essere definito un vero  e proprio collasso. Se non interverrà un deciso mutamente del sistema metoclimatico con un incremento delle precipitazioni invernali e una riduzione delle temperature estive, il paesaggio dei prossimi decenni delle nostre Alpi vedrà una riduzione sensibile del glacialismo e avremo solo qualche ghiacciaio residuo nei circhi di alta quota, come avviene attualmente per i Pirenei.

Oltre ai teli copertura che lei ha sperimentato negli ultimi anni, sono in fase di progetto altre tecnologie utili a frenare il ritiro dei ghiacciai?

In realtà le coperture di geotessile, ormai ampiamente sperimentate in tutti i paesi alpini, non servono a frenare il ritiro dei ghiacciai, ma a conservare una parte della neve invernale (il che vuol dire ovviamente proteggere anche il ghiaccio sottostante). Questo soprattutto su quei ghiacciai utilizzati per lo sci estivo o meglio tardo-primaverile, dove quindi vi sono anche importanti interessi economici. E’ impossibile pensare di coprire con i teli l’intera superficie di un ghiacciaio di grandi dimensioni (a meno che si voglia creare un “glacioparco” per le future generazioni…).  E’ invece pensabile utilizzare i teli in situazioni limitate e localizzate, ad esempio dove dal ghiaccio emergano piccoli affioramenti rocciosi, i quali allargandosi potrebbero frammentare il ghiacciaio. Altre tecnologie sperimentate ma meno efficaci dei teli, comunque sempre utilizzate in comprensori sciistici, sono la battitura della neve con mezzi meccanici che ne aumenta la densità e quindi la resistenza alla fusione, oppure come avviene normalmente sulle piste da sci, l’utilizzo di neve artificiale. Ribadisco che si tratta di interventi locali, frenare il regresso di un grande ghiacciaio è praticamente impossibile.

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