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Himalaya, i ghiacciai si sciolgono meno del previsto: l’America cambia le carte in tavola

LONDRA — I ghiacci dell’Himalaya fonderebbero meno del previsto, molto meno. Questo almeno quanto rilevato da una nuova e importante ricerca sui ghiacci terrestri effettuata dall’Università del Colorado e pubblicata mercoledì scorso sulla rivista scientifica Nature. I nuovi dati calcolano una perdita di ghiacci di circa 4 giga tonnellate all’anno pari ad un contributo all’innalzamento del mare di 0.01 millimetri all’anno, mentre le stime precedenti davano valori 10 volte maggiori. Ma le grandi differenze deriverebbero dai diversi metodi utilizzati, dal momento che gli ultimi risultati sono stati ottenuti da misurazioni via satellite, mentre quelli precedenti da indagini al suolo. Quale dei due è quindi più attendibile? Si apre forse ora un nuovo capitolo sul presente e sul futuro dei ghiacci delle vette asiatiche.

La ricerca è stata condotta da un gruppo di studiosi dell’University of Colorado, composto da Thomas Jacob, John Wahr, W. Tad Pfeffer e Sean Swenson, e considera l’arco di tempo che va da gennaio 2003 a dicembre 2010. Durante questo periodo gli studiosi avrebbero calcolato che la fusione di tutte le masse di ghiaccio terrestri ha portato a un aumentato di circa 1,5 millimetri all’anno, pari a circa 12 millimetri in otto anni. Per arrivare a questi dati il team di ricercatori americani ha utilizzato le misurazioni effettuate da due satelliti GRACE (Gravity Recovery e Climate Experiment), lanciati in orbita nel 2001. I due satelliti viaggiano in tandem a circa 200 chilometri di distanza l’uno dall’altro, intorno alla Terra a quasi 500 chilometri di quota. Sono in grado di rilevare piccoli cambiamenti di massa, calcolando le quantità di ghiaccio e acqua in regioni differenti, e monitorando il campo di gravità.

Le ricerche effettuate con questo metodo porterebbero a stime molto inferiori alle precedenti rispetto alla fusione dei ghiacci dell’Himalaya e delle aree montuose asiatiche, che sarebbero ora valutate pari a soli 4 giga tonnellate all’anno, un numero 10 volte minore di quanto calcolato con analisi a suolo. “I risultati sono stato davvero una sorpresa – ha dichiarato il professor Wahr in un comunicato, secondo quanto riferito dall’Agence France-Presse -. Una possibile spiegazione è che le stime precedenti si riferiscano a misurazioni effettuate su ghiacciai asiatici localizzati a quote inferiori, quindi più accessibile. Il comportamento dei ghiacciai ad altitudini più elevate sono state estrapolate da queste misure. A differenza dei ghiacciai più bassi, molti dei ghiacciai più alti sarebbero ancora troppo freddi per perdere massa, anche in presenza di riscaldamento atmosferico”.

La notizia ha suscitato grande interesse nel mondo della ricerca scientifica, in particolare da parte degli studiosi che si occupano di monitorare al suolo la fusione dei ghiacci delle grandi montagne asiatiche, come ad esempio i ricercatori italiani dell’Università di Milano e francesi dell’Lgge di Grenoble, che si occupano del progetto Share Paprika, che ha condotto alcune campagne di studio sui ghiacci dell’Himalaya e del Karakorum Centrale per calcolare il bilancio idrologico nelle sue varie componenti (acqua di fusione glaciale, acqua di fusione nivale, acqua di precipitazioni liquide) e di modellarne l’evoluzione futura anche in relazione a diversi scenari di Cambiamento Climatico.

“Quello che possiamo dire attualmente è che tutte le recenti informazioni sulla perdita di massa glaciale nella regione dell’HKKH – commenta Patrick Wagnon, ricercatore dell’Lgge di Grenoble – derivanti da misure in situ degli ultimi decenni (misurazioni dirette del bilancio di massa), son basate su serie temporali di dati brevi discontinue, ottenute principalmente da rilievi su ghiacciai piccoli, spesso situati a basse quote, e conseguentemente sottoposti a una maggiore fusione. Inoltre molte delle serie dati relative ai bilanci di massa ad esempio in India e in Nepal, possono essere considerate discutibili in quanto si riferiscono principalmente a rilievi effettuati nella zona di ablazione del ghiacciaio. Infine gli studi hanno interessato soprattutto i ghiacciai bianchi, notoriamente soggetti a perdite di massa superiori rispetto ai ghiacciai coperti da detrito. Queste considerazioni spiegano perché attraverso le misure in situ si ottengono valori così elevati di perdita di massa glaciale.  A questo proposito stiamo lavorando a una pubblicazione da sottoporre al Grl, che mostra come le nostre serie di dati raccolti in India  sul ghiacciaio Chhtoa Shigri tra il 1988 e il 2011 non siano in accordo con gli altri dati disponibili, evidenziando stime di perdita di ghiaccio inferiori”.

“Come è stato detto dagli stessi autori della ricerca – aggiunge Yves Arnaud, ricercatore anch’egli presso l’Lgge di Grenoble – uno degli inconveniente di GRACE è legato alla necessità di dover rimuovere il segnale del dal ciclo idrologico, sostituendolo con modelli idrologici indipendenti per determinare il bilancio di massa del ghiacciaio. Per Himalaya e Karakorum l’ordine di grandezza (e di incertezza) di questa correzione, indicata dagli autori stessi, è 5 (+ / -4), e l’indicatore del bilancio di massa è di per sé – 5, per cui l’errore ha lo stesso ordine di grandezza del segnale stesso! Uno studio molto recente (Andermann et al, Nature Geoscience, 10 gennaio 2012) sottolinea il ruolo delle acque sotterranee nel ciclo idrologico in Himalaya, elemento non considerato in questo studio. Inoltre le variabili idrologiche (ed in particolare quantità e distribuzione delle precipitazioni in alta quota), sono poco conosciute in questa regione. È un dato di fatto che la grandezza della correzione idrologica stimata dagli autori potrebbe essere sbagliata e che le incertezze della correzione idrologica sono certamente sottostimate per la regione dell’Himalaya-Karakorum”.

Il progetto Share Paprika del resto afferisce al più ampio progetto Share coordinato dal Comitato EvK2Cnr, l’organizzazione italiana che gestisce il Laboratorio alla Piramide nella Valle dell’Everest e che ha installato diverse stazioni di monitoraggio climatico su ghiacciai dell’Himalaya e del Karakorum. “La fusione dei ghiacci è un tema importante su cui si muove da anni il Comitato EvK2Cnr – spiega Elisa Vuillermoz, responsabile dei progetti di ricerca del Comitato -. Fino ad oggi Università di Milano e EvK2Cnr hanno attivato, cinque stazioni meteorologiche sopraglaciali che misurano anche il livello di neve e lo scambio energetico sulla superficie del ghiacciaio. In particolare, nell’ambito di Share Paprika è stata installata nel 2012 una stazione a 5,700 metri sul ghiacciaio Changri Nup in Nepal. In Karakorum, Pakistan, nell’estate 2011 è invece stata attivata una stazione meteo automatica sul ghiacciaio del Baltoro, a Concordia a circa 4700 metri di quota”.

Se le stazioni sono in grado di ricavare i dati direttamente dal suolo, le misurazioni via satellite si basano invece sulle variazioni gravitazionali percepite, ovvero sui valori di densità e di massa.

“La cosa interessante di questa ricerca è che si siano preoccupati di studiare le aree glaciali non polari – sostiene Maria Teresa Melis, ricercatrice dell’Università di Cagliari e coordinatrice del sistema informativo GeoNetwork di SHARE -, perché fino ad ora i satelliti gravitazionali misuravano gli oceani, le correnti marine e le calotte polari. Studiare i ghiacciai di alta quota e ricavare delle variazioni di massa da collegare allo scioglimento dei ghiacci è una novità molto importante. I satelliti risalirebbero alla quantità di ghiaccio persa sulla base della variazione di massa gravitazionale. I risultati emersi da questa ricerca sono stati discussi ampiamente dai ricercatori stessi che hanno evidenziato le grandi differenze con i dati di scioglimento che emergono dai modelli glaciologici sino ad ora utilizzati. Sarà estremamente interessante poter calibrare queste misure con i dati puntuali di rilevamento glaciologico sui quali possa essere costruito un modello di valutazione integrato. La crosta terrestre è composta da rocce con diverse densità, e la densità aumenta tanto più la crosta è sottile. Infatti il limite dei modelli glaciali che conosciamo è quello che le misure sono sempre localizzate, non esistono misure globali se non per estensione attraverso un modello”.

“Questi risultati sono attendibili e ribaltano le nostre conoscenze sulla dinamica glaciale attuale e sul tasso di innalzamento del mare ?- si chiedono anche Gulglielmina Diolaiuti, coordinatrice del Progetto Share Stelvio, e Claudio Smiraglia, glaciologo di fama internazionale ricercatore del Comitato EvK2Cnr e professore dell’Università di Milano – Bisogna fare molta attenzione. Da una parte un approccio come quello del team di Jacob, applicabile all’intero pianeta simultaneamente, è assai interessante. Fino ad oggi infatti, solo pochi ghiacciai nel mondo sono studiati in dettaglio e spesso le variazioni regionali o globali di ghiacci sono solo estrapolate con modelli che si basano su pochi dati puntuali. Dall’altra questo approccio non studia direttamente le variazioni dei ghiacciai ma le calcola a partire dagli effetti sul campo di gravità del nostro pianeta. E’ quindi indiretto e non è esente da possibili errori, primo tra tutti l’influenza della tettonica (innalzamento-abbassamento, variazioni crostali) che come sottolinea Jonathan Bamber – ricercatore inglese, uno dei massimi esperti di remote sensing – nel suo articolo critico apparso su Nature, e come dicono gli stessi autori della ricerca, può giocare un ruolo importante nel portare a risultati così diversi da quanto prima stimato”.

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