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Frana del Vajont: nuovo studio per capirne innesco e velocità

La diga del Vajont vista da Longarone (Photo Emanuele Paolini)
La diga del Vajont vista da Longarone (Photo Emanuele Paolini)

LONGARONE, Belluno — Un nuovo studio per capire il meccanismo di innesco della frana del Vajont e soprattutto le cause dell’alta velocità che ha raggiunto nel suo movimento. La nuova ricerca è condotta dai ricercatori dell’Ogs, l’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale di Trieste insieme al Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova, a quasi 50 anni di distanza dalla tragedia del Vajont che provocò quasi 2mila morti.

Il 9 ottobre del 1963 una grossa frana si staccò dal Monte Toc. Il distaccamento roccioso finì nel sottostante bacino idrico della diga del Vajont: le onde che ne scaturirono distrussero completamente i borghi di Fraseign, Spesse, Pineda, Prada, Marzana e San Martino e i paesi di Erto e Casso. Da allora sono passati 48 anni, molti studi sono stati fatti, ma da un punto di vista geologico, ancora molto rimane da capire.

In quest’ottica è stato istituito un nuovo progetto nato dalla collaborazione tra i ricercatori dell’Ogs di Trieste, l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, e quelli del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova.

“Lo scopo fondamentale è capire il meccanismo di innesco della frana e soprattutto quali sono le cause dell’alta velocità che ha raggiunto nel suo movimento – spiega il professor Rinaldo Genevois, responsabile del Dipartimento, in un’intervista rilasciata al Giornale della Protezione Civile -. Questo deriva da una considerazione su tutti i lavori pubblicati sul Vajont, che abbiamo raccolto in un database e dai quali risulta sostanzialmente che il modello geologico-tecnico iniziale della frana non è mai stato definito con la necessaria precisione. Quindi il nostro scopo fondamentale, e siamo a buon punto, è realizzare il modello geologico iniziale.

I ricercatori stanno lavorando a un modello di analisi, realizzato in collaborazione con la Simon Fraser University di Vancuver in Canada.

“Il secondo passo sarà quello di attribuire ai materiali presenti le caratteristiche tecniche, quindi geomeccaniche – continua Genevois -, per poter fare una simulazione numerica del fenomeno franoso in se stesso. Le simulazioni numeriche saranno necessarie per cercare di capire il fenomeno in sè e non penso diano grandi sorprese; le novità per me emergeranno dalla dinamica del fenomeno, cioè dalla velocità che ha assunto. Il nostro scopo non è fare uno studio generico su un episodio di 50 anni fa, ma è quello di cercare di capire il fenomeno delle grandi frane in roccia. Ciò può essere utile non tanto per prevedere, ma per capire dove sono i versanti che possono dare luogo a fenomeni simili e stabilire delle procedure di indagine e di studio per valutare possibili fenomeni franosi in altre aree delle nostre Alpi che potrebbero dare luogo a fenomeni analoghi, anche in assenza di un lago o di un bacino artificiale”.

Tra le novità del progetto ci sarà anche la realizzazione di un modello 3D del corpo della frana: un’analisi importante perché, mentre l’osservazione naturale permette di vedere la superficie ma non quello che avviene in profondità, questo modello consentirà ai ricercatori di vedere anche altri punti di vista. Nella simulazione numerica ci saranno poi modelli di valutazione delle condizioni di stabilità che considereranno lo stato tensionale, gli spostamenti, la presenza di superfici di debolezza e le superfici di rottura.

È necessario “imparare la lezione dal Vajont in tutti i suoi aspetti – conclude il professore ordinario del Dipartimento di Geoscienze dell’Università di Padova -: situazione geologica iniziale, situazione idrogeologica iniziale, caratteristiche geomorfologiche e caratteristiche geomeccaniche, quindi modellazione numerica del versante con particolare attenzione alle caratteristiche meccaniche o alle particolari condizioni che potrebbero provocare un’alta velocità nel movimento della massa. Le masse si possono anche muovere lentamente, anche se nel caso delle rocce è po’ difficile, ma perlomeno si possono muovere con una velocità meno drammatica: nel caso del Vajont si parla di circa 30 metri al secondo. Il punto è imparare dal Vajont per il futuro. Io sono un po’ critico sulla realizzazione della mappe di pericolosità, che vengono fatte di solito solo sulla base geomorfologica, cioè sulla base di quello che si vede e basta. Io dico che quello che si vede è un aspetto che deve essere considerato, ma il punto d’arrivo deve essere un’analisi numerica, e come tale non si può fare su un’area ma su un singolo versante”.

Info: www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it

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