
“Cherchez la femme!”, “cercate la donna!” Non parlo la lingua di Tolstoj, ma so che gli aristocratici russi amavano esprimersi in francese. Ma quando Alexander Odintsov, 69 anni, da pochi giorni Piolet d’Or alla Carriera risponde così alla domanda su come si sia avvicinato all’alpinismo resto per un momento a bocca aperta. Poi, pian piano, capisco.
Alexander, Sasha per gli amici, in parete è sempre stato un uomo di ferro. In una chiacchierata, davanti a un tè o a qualcosa di più forte, passa ai toni confidenziali, alle pacche sulle spalle, agli ammiccamenti e ai sorrisi. Un clima in cui Luca Calvi, che traduce la nostra conversazione, si trova a suo agio, e anzi aggiunge del suo.
Prima di tornare alla donna, entrata in scena quando Sasha aveva 19 anni, vale la pena ricordare la motivazione del Piolet d’Or alla Carriera, che in precedenza era andato a miti dell’alpinismo come Walter Bonatti (a cui è intitolato il premio), Reinhold Messner e Chris Bonington.
“La sua carriera ha ridefinito l’alpinismo post-sovietico, ha portato l’arrampicata russa su Big Wall in nuovi continenti e ha ispirato una generazione di alpinisti nei paesi dell’ex-Unione Sovietica”, scrivono i giurati Ethan Berman e Jack Tackle (USA), Aymeric Clouet (Francia), Young Hoon Oh (Corea del Sud), Ines Papert (Germania), Enrico Rosso (Italia) e Mikel Zabalza (Spagna).
Oltre alla difficoltà e all’eleganza delle vie che ha tracciato su molte vette della Terra, nell’alpinismo di Odintsov sorprende la capacità di passare senza danni, e senza rinunciare a esplorare, dall’alpinismo sovietico, ultraorganizzato e sostenuto anche economicamente dallo Stato, alle spedizioni degli ultimi trent’anni, finanziate grazie a canali privati e realizzate con piccoli gruppi di amici.
Con il progetto The Russian Way – Big Walls of the World, tra il 1995 e il 2011, Sasha Odintsov ha aperto nove vie di grande difficoltà ed eleganza, su vette e pareti leggendarie come lo Jannu, la Grande Torre di Trango, i Latok, il Troll Wall e il Bhagirathi III, affacciato sulle sorgenti del Gange.
Signor Odintsov, com’è arrivato all’alpinismo? Lei risulta essere nato a Leningrado, oggi San Pietroburgo, in pianura e sul mare…
Non sono nato a Leningrado ma a Vyborg, una città finlandese che Stalin ha annesso nel 1939 all’Unione Sovietica. Come ho iniziato? Cherchez la femme! Avevo 19 anni, sono stato beccato in autobus senza biglietto. Per punizione dovevo collaborare gratis con un’associazione sportiva. Ci sono andato, mi sono trovato davanti a una bellissima ragazza, le ho chiesto se potevo collaborare con lei per l’alpinismo. Ha detto sì, e mi ha cambiato la vita.
Una bella storia. Ma dove si pratica l’alpinismo nelle terre piatte intorno a San Pietroburgo/Leningrado?
In Carelia esistono delle piccole falesie, lì ho scoperto la roccia. Poi, quasi subito, ho iniziato a frequentare le grandi montagne, a iniziare dal Caucaso. Vivevo in un Paese oppressivo, l’arrampicata e la montagna mi hanno fatto sentire libero. Mi ci sono buttato a capofitto.
Qual è stato il passo successivo?
Ho studiato Geologia, dopo la laurea avrei dovuto passare tre anni a fare pratica sul terreno. Invece ho trovato una falla nel sistema e sono riuscito a farmi assegnare a un campo alpinistico nel Caucaso e poi anche nel Pamir. Ho fatto la guida e l’istruttore, è diventata la mia vita. Facevo quello che mi piaceva, avevo vitto, alloggio e uno stipendio. E ho fatto esperienza.
Non ha avuto paura di essere scoperto e rimesso in riga?
Al tempo di Stalin la gente aveva paura davvero e se mi avessero scoperto in quel periodo sarei potuto finire al muro. Ai miei tempi però era diverso, ho deciso di fare quello che mi piaceva e l’ho fatto.
Senza problemi con i suoi superiori?
Certo che ci sono stati problemi! Quando mi hanno licenziato ho affrontato il direttore del campo, gli ho dato un pugno in faccia e sono diventato un freelance. Oggi non lo rifarei…
Fino alla caduta dell’URSS nel 1991, lei ha aperto più di 30 vie nel Pamir e nel Caucaso, con difficoltà dal 5B al 6B della scala russa. Alcune di queste hanno vinto i Campionati sovietici di alpinismo, un concetto che per noi occidentali è difficile da capire.
Si pensa al Pamir e al Caucaso come a vette alte ma facili dal punto di vista tecnico. Non è vero, e su cime come lo Zamin-Karor, il Bodkhona e l’Asan, o sulle grandi pareti granitiche del massiccio di Karavshin, ho tracciato delle vie di roccia molto dure.
Prima della caduta del Muro di Berlino, per voi dell’Est, viaggiare verso l’Occidente era difficile. Però sapevate qualcosa sui grandi alpinisti dell’Ovest. O no?
Oltre il Muro, per noi, c’erano divinità che si chiamavano Messner o Bonatti. Li ammiravamo ma non eravamo in contatto con loro. Quando la barriera è crollata, con alcuni siamo diventati amici. Ma c’è voluto del tempo…
Abbiamo scavalcato gli anni del cambiamento. Gorbaciov e poi Eltsin, la perestrojka, la morte dell’URSS nel 1991. Cosa è successo a voi alpinisti?
E’ stato un momento terribile, la Russia si è decomposta. Io, come ha scritto Puskin, mi sono sentito come “una marionetta a pezzi”. Nel periodo del passaggio, nel 1990, c’è stata la grande valanga, staccata da un terremoto, che ha ucciso 43 alpinisti sul Pik Lenin, tra i quali vari miei amici. Una tragedia che ha assunto anche un valore simbolico.
Con il passaggio dall’URSS alla Russia l’alpinismo organizzato e i campionati sono finiti o no?
Per qualche anno sono andati avanti, ma la qualità non era più quella di prima. Ci voleva qualcosa di nuovo.
E lei, con il progetto The Russian Way, l’ha trovato…
Intanto mi sono costruito un lavoro, dedicandomi all’“alpinismo industriale”, i lavori su ciminiere e altre strutture.
Lo stesso di Jerzy Kukuczka e dei polacchi …
Certo, ma lei sa quante vecchie strutture industriali più o meno abbandonate ci sono a Mosca? Ho lavorato tantissimo, guadagnando in un giorno quanto un ingegnere in un mese. Per questo non ho mai avuto problemi a pagare le mie spedizioni.
Qual è stata la sua prima salita sulle Alpi?
Un tentativo invernale alla parete Nord dell’Eiger. Non ce l’abbiamo fatta, ma ho capito di potermi confrontare con i migliori alpinisti dell’Ovest. Poi, negli anni, sono diventato di casa dalle Dolomiti a Chamonix.
Delle nove spedizioni del progetto The Russian Way, quale ricorda con più piacere?
Quella del 1999 alla Torre Grande di Trango, dove abbiamo incontrato gli americani Alex Lowe, Mark Synnott e Jared Ogden. Li abbiamo raggiunti nella bufera, si sono stupiti, gli abbiamo detto “ma nel Caucaso è sempre così”. All’inizio non ci capivamo, dopo qualche sorso di vodka ci siamo compresi benissimo.
Una delle vostre grandi salite, nel 2004, è stata la parete Nord dello Jannu. Poi gli americani hanno tracciato una via più diretta. O no?
Più diretta sì, ma su quella parete una vera direttissima è impossibile. Ho vissuto esperienze irripetibili sulla Torre di Trango, sullo Jannu e anche sul Bhagirathi. Non so se è possibile ripetere quelle vie, avevamo una forza morale e una voglia incredibili.
Con The Russian Way avere aperto grandi vie sull’Ak-Su e sul Peak 4810. Ci sono ancora belle vie da aprire sulle grandi vette dell’ex-URSS?
Certamente sì. Sul Pik Pobeda ce n’è più d’una, la parete Sud del Pik Kommunizm è incredibile. Ci vuole una nuova generazione di alpinisti.
La spedizione al Kangchenjunga del 1989, con 28 alpinisti e 85 salite a cime oltre gli 8000 metri, è stata il capolavoro dell’alpinismo sovietico. Cosa ne pensa?
Sasha Odinzov esclama “krito!” e sorride. “Una figata” spiega il bravo traduttore.