
«Belin che schéuggio!» Forse sono state davvero queste le prime parole dette da Alessandro Gogna quando, per la prima volta, si è trovato davanti il Monte Bianco nel 1964. Lui lo racconta ridendo, guardando con complicità Enrico Camanni seduto a fianco.
È iniziato così il convegno nazionale del Club Alpino Accademico Italiano che si è tenuto a Gressan (Ao) nei giorni scorsi. Il tema della giornata è sua maestà il Monte Bianco e per raccontarlo nei suoi tempi passati, presenti e futuri una sfilata di nomi che hanno fatto grande l’alpinismo sulle Alpi. Un po’ la passerella di Victoria Secret dell’alpinismo italiano.
Il primo a prendere la parola è Erri De Luca, appena nominato socio onorario del prestigioso club degli Accademici. Una delle penne più autentiche e riconoscibili della narrativa italiana, è anche un ottimo alpinista. Nel 2002 è diventato il primo ultracinquantenne a salire un 8b+, ma molto probabilmente a lui dei record frega poco. «Per me arrivare su una cima è come far sparire una montagna. Da lontano la vedi enorme, maestosa. Poi più ti avvicini, più lei sparisce fino a svanire completamente quando ci sei in cima. Scalare mi piace perché non serve a nulla, disobbedisce alla legge di mercato».
Il Monte Bianco si staglia freddo come un gigante addormentato. Un oceano di granito e neve, scolpito da vento e gelo, sorretto da pilastri vertiginosi e fiancheggiato da ghiacciai che precipitano verso valle. Nel 1786 quella montagna cessò di essere solo un luogo da osservare, sognare, temere, ma divenne campo d’azione. E come in tutte le attività umane, si sporcò subito di falsi miti e opportunismo, come ha raccontato lo storico e alpinista Pietro Crivellaro con la sua tesi di controalpinismo. «Il primo vero protagonista dell’ascensione al Bianco era il dottor Paccard. Balmat era solo un abusivo opportunista».
Da allora il Bianco divenne teatro di un’evoluzione ininterrotta. Pochi anni dopo Chamonix e Courmayeur pullulano di guide e dei loro clienti, spesso ricchi borghesi inglesi, che iniziano a collezionare salite. Una delle coppie più formidabili di quel periodo fu senz’altro la cordata Croz – Whymper. Con un balzo temporale in avanti, si arriva poi, agli anni Trenta del ‘900 quando impazza la corsa alle grandi pareti, come la nord delle Grandes Jorasses.
In quegli anni nasce una grande alpinista italiano che sul Bianco ci ha passato più di un pezzo di vita. Ugo Manera sale sul palco del convegno per raccontare il suo alpinismo di ricerca. Insieme al socio e amico Gian Piero Motti diede il via al Nuovo Mattino, aprì la strada alla scalata in fessura in Valle Orco e firmò tanti capolavori sul Gran Paradiso e sul Bianco, appunto.
Dopo di lui arriva un altro grande del Bianco, Patrick Gabarrou che su quella cattedrale ha fatto la storia della piolet traction. Dal Supercouloir a Divine Providence, o la ricerca dell’essenziale nell’alpinismo come la definisce lui.
Intanto siamo arrivati agli anni Ottanta e a dir la sua arriva uno che ha aperto la strada all’arrampicata sportiva di ultima generazione: Marco Bernardi. Parola d’ordine è evoluzione, che Bernardi ha portato in tanti campi. Dal ghiaccio con Gian Carlo Grassi fino alle falesie. «La differenza tra sport e gioco è che il primo è un confronto con gli altri, mentre il secondo è la ricerca di un contatto con l’infinito».
A proposito di ghiaccio, arrivano i local Ezio Marlier e Anna Torretta a raccontare brevemente l’evoluzione dell’arrampicata su ghiaccio e del dry tooling. «L’alpinismo è un aspetto mentale, per me è alpinismo ogni volta che si va un pochino oltre in cosa non si conosce. Non è importante dal punto di vista assoluto ma conta cos’è per te», incalza Marlier.
Ancora più profetico è Manlio Motto che parla dopo di lui: «In montagna ho trovato tutte le risposte per crescere come uomo. La montagna mi ha dato tutto. Mi ha dato il valore della libertà, del rispetto, dell’onestà, della comprensione».
A chiudere la serata un gruppetto di giovani con le ultime realizzazioni sul Bianco: Marco Ghisio, uno degli ultimi arrivati tra gli Accademici e i veloci Jerome Perruquet, Giuseppe Vidoni e François Cazzanelli. «L’alpinismo sul Bianco del presente e del futuro è strettamente legato al cambiamento climatico. Quando ho iniziato a lavorare come guida alpina, dieci anni fa, non si poteva nemmeno immaginare che una via classica come la salita alla Gengiva potesse diventare pericolosa. Sicuramente questi fattori stanno portando a un sempre più grande sviluppo dell’alpinismo invernale. Si aprono nuove possibilità anche su un massiccio che viene scalato da decenni», conclude Cazzanelli.
Intanto è arrivata l’ora di cenare e di stringersi in abbracci con qualche vecchio amico di scalate intravisto nel pubblico. Di tutto il resto se ne parlerà al prossimo convegno. Magari sperando che la prossima volta i giovani e le donne sul palco e nel pubblico non siano avvistamenti rari come il leopardo delle nevi sul Pamir.