Gente di montagna

A tu per tu con Caroline Ciavaldini e James Pearson: “arrampicare deve farci stare bene”

Dal mondo delle competizioni e dei gradi alle nuove consapevolezze arrivate grazie ai viaggi e alla famiglia, la formidabile coppia anglo-francese si racconta a margine di MeseMontagna 2025

Ex garista francese lei ed esponente dell’arrampicata trad anglosassone lui, sono impegnati non solo ad esplorare le pareti del mondo in una cordata ormai affiatata ma ad essere anche, e parallelamente, genitori di due bambini ancora molto piccoli. Caroline Ciavaldini e James Pearson si sono raccontati durante la serata inaugurale di MeseMontagna, rassegna che ogni anno ospita a Vallelaghi, in Trentino, il meglio dell’alpinismo, anche internazionale. Li abbiamo incontrati a margine dell’evento, per un’intervista che è stata un autentico viaggio, dentro le emozioni positive e negative di uno sport come l’arrampicata, le cui contraddizioni sono ancora molto difficili da inquadrare per intero.

Dove vi siete incontrati?
Caroline: “Ci siamo incontrati in Turchia, più precisamente in Anatolia. Era maggio 2010, ma James conosce meglio di me la data esatta. Lì, oltre a lui, conobbi anche Yūji Hirayama. Ed è stato un incontro determinante per entrambi: lo consideriamo ancora il nostro dio in terra, almeno per quanto riguarda l’arrampicata, e dopo quella volta abbiamo fatto molti viaggi insieme. Ad ogni modo, non credo che ci innamorammo subito: ci volle un bel po’ di tempo, probabilmente perché eravamo in fasi differenti delle nostre vite”.
James:
“Sì. Ma, per certi versi, stavamo entrambi valutando come andare avanti con l’arrampicata: lei dopo il periodo delle competizioni ed io dopo la tremenda svalutazione di The Walk of Life, la mia via nel North Devon che avevo gradato 9A trad e che mi aveva causato non pochi problemi”.

Com’è che invece ognuno di voi, in modi ovviamente diversi, si è avvicinato all’arrampicata e se n’è innamorato?
James:
“Nel mio caso è stato molto facile. Probabilmente mi sono innamorato dell’arrampicata ancora prima di capire che cosa fosse. Mio padre mi ha avvicinato alla roccia fin da bambino, facevamo un sacco di escursioni nei posti che poi avrei scoperto arrampicando. Essendo nato nel Peak District, quello per la montagna è stato un amore cresciuto per osmosi”.
Caroline: “Io invece ho cominciato ad arrampicare quando avevo 11 anni, grazie alla scuola. Sono stata molto fortunata perché avevo un insegnante davvero motivante, che ci portava ad arrampicare in ogni anfratto dell’isola (La Reunion, dove Caro è nata e cresciuta, ndr). Il mio approccio era molto naïf, perlomeno all’inizio. Ricordo di essermi recata in un negozio per comprare un gri-gri, in modo che la mia mamma potesse assicurarmi, ma siccome era troppo costoso finii per comperare uno shunt (dispositivo che in corda doppia sostituisce il nodo prusik, ndr) anche se non sapevo nemmeno che cosa fosse. Con il tempo la valutazione del materiale è decisamente migliorata e l’arrampicata trad, che ho imparato grazie a James, ha avuto il suo ruolo in questo”.

La tua mamma è purtroppo venuta a mancare quando avevi 22 anni.
Caroline:
“Sì. Stava affrontando una brutta depressione e forse ero troppo concentrata sulle mie gare e i miei successi personali per accorgermene. Si suicidò e fu devastante, ma in qualche modo l’arrampicata mi salvò: mi aggrappai alle competizioni e agli allenamenti come ad un’àncora”.

Pochi anni più tardi, hai deciso comunque di smettere con le gare.
Caroline:
“Era nei piani, in effetti. Sapevo, dentro la mia testa, che a 25 anni o giù di lì avrei smesso. Forse perché avevo iniziato a gareggiare in Coppa del mondo lead quando avevo solo 16 anni e a un ritmo super intenso, che prevedeva 12 gare di Coppa del mondo all’anno. Questo significava dedicare ogni giornata espressamente a quell’obiettivo: dopo dieci anni non era più sostenibile per me”.

Quando hai smesso, o negli anni successivi, ti è mancato qualcosa di quel mondo?
Caroline:
“Le gare mi piacevano, ma sono felice di aver messo un punto, senza recriminazioni. Se avessi 16 anni farei tutto di nuovo, ma con un po’ di consapevolezza in più e dunque diversamente. La prenderei meno sul serio, ad esempio. Ricordo di aver pianto tutte le mie lacrime per settimane dopo aver perso ad una tappa di Coppa del mondo. Non era un gioco per me, l’affrontavo come se fosse una questione di vita o di morte. E questo si è tradotto anche nei disturbi alimentari che ho dovuto affrontare per gran parte della mia carriera”.

Un problema che affligge molti arrampicatori ma di cui si parla poco.
Caroline: “Assolutamente. Spesso gli atleti stessi non chiedono aiuto, perché pensano che quella scelta sia qualcosa di controllabile. E poi gli altri ti guardano e ti dicono “Quanto sei forte! Quanto sei in forma!, ma la realtà è diametralmente opposta. La cosa più difficile per me fu realizzare che tutto questo riguardava l’arrampicata, un’attività che amavo sopra ogni cosa ma mi faceva soffrire in quel modo. Se potessi tornare indietro cambierei soltanto questo del mio approccio alle competizioni”.

L’arrampicata come veicolo di sofferenza è stato un tema anche nella tua vita e carriera, James. A partire dalla svalutazione di The Walk of Life di cui parlavi prima.
James
: “Era il 2008 e mi trovavo nel pieno della forma e del successo, perlomeno nel Regno Unito. Inanellavo prime ripetizioni durissime e l’apertura di The Walk of Life doveva essere il coronamento di quel periodo così positivo per me. Proporre il 9A trad su quella via per poi subire il declassamento alla prima ripetizione, insieme allo scherno dell’intera comunità alpinistica, è stato un duro colpo. Avevo 23 anni, non ero più un ragazzino, ma l’arrampicata era il mio intero mondo e improvvisamente mi sembrava di averlo perduto, insieme alla stima degli altri climber e alla voglia di mettermi in gioco ancora”.

James Pearson con il figlio Arthur (foto di Tristan Hobson)

Da un lato subivi un attacco, forse sproporzionato rispetto alla gravità del caso, e dall’altro ti sentivi dunque colpevole ma allo stesso tempo una vittima.
James
: “Esattamente. Si è giocato tutto su questa dicotomia. Ho lasciato il Regno Unito per questo motivo. Poi ho incontrato Caro e mi sono costruito una vita lontana da quelle polemiche, senza rendermi conto di quanto pesassero ancora e di come continuassi a portarle con me”.

Tutto ciò ti ha permesso però di crescere ancora e di arrivare a proporre nuovamente l’E12 per un’altra tua via.
James:
“È stato un percorso travagliato, ma la risposta è sì. E anche diventare padre mi ha aiutato in questo. Inconsciamente, con Caro, avevamo girato il mondo in lungo e in largo alla ricerca di vie trad durissime. Il mio scopo manifesto non era di certo l’E12 ma una parte di me desiderava questo tipo di riscatto. Nel 2018 è nato Arthur e abbiamo smesso di fare i giramondo. Così ho scoperto che la parete tanto agognata si trovava in realtà dietro casa, ad Annot, in Francia, vicino a dove abitiamo. Ho liberato Bon Voyage, E12 per davvero, nel 2023, mentre la paternità mi donava una pace che non vivevo da molto tempo”.
Caroline:
“A tal proposito, penso che diventare genitori abbia permesso ad entrambi di rimettere l’arrampicata al proprio posto, nella scala d’importanza che hanno le cose della vita. I nostri figli si meravigliano per ogni cosa e non se ne stufano con la stessa tracotante fretta degli adulti. Oggi eravamo in Val di Daone a fare un po’ di boulder con loro ed Arthur, che ora ha sette anni, è riuscito a chiudere un blocco. Poi non è passato subito a provarne un altro ma ha voluto continuare ad arrampicare sullo stesso, per tutto il pomeriggio, animato da una passione sfrenata che prima non saremmo mai riusciti a capire del tutto. Alcuni la chiamerebbero comfort-zone, sminuendone la portata. Invece forse si è trattato di cercare la gioia e non la performance: ripetere quello che ti dà gioia è più importante che dimostrare qualcosa”.
James:
“Purtroppo, nel mondo dell’arrampicata, siamo abituati a rendere misurabile qualsiasi cosa. Il che è perfettamente comprensibile, nell’ottica di uno sport che mira alla performance. Eppure il nostro amore per l’arrampicata è molto di più e quando diventa troppo performativo crea sofferenza: è il caso delle competizioni e dei disordini alimentari per Caro ed è il caso di The Walk of Life per me. Un grado non può rovinarti la vita, eppure è successo”.

Come se ne esce?
James
: “Forse imparando a cercare l’essenziale. Mi piace pensare che, in arrampicata come in qualsiasi contesto, una cosa abbia senso se riesci a spiegarla a tua nonna. Se vado da lei e le dico “Domani provo un tiro, mi calo dall’alto, risalgo la corda, lavoro i punti chiave, piazzo le protezioni, poi scendo e lo arrampico” probabilmente non capirebbe nulla e mi guarderebbe come si guarda un pazzo. Se invece le dico “Domani provo un tiro, parto dalla base della parete, salgo e quando ci sono dei buchi nella roccia che sembrano buoni ci metto delle protezioni per non farmi male se cado” ha tutto un altro sapore. Siamo abituati a complicare le cose ed è un vero peccato”.

Con Bon Voyage sei riuscito a liberarti di un fantasma?
James: “In parte. Proporre un 9A  trad, di nuovo, fu complesso per me. Mi aspettavo che arrivassero sassate ed insulti, ancora. Invece è arrivato Adam (Ondra, ndr) che ha liberato il tiro confermandone il grado. Questo era tutto, ma dentro di me sentivo di non aver ancora risolto la questione. Ho affrontato i miei demoni soltanto dopo, quando ho capito quanto male quell’esperienza mi aveva fatto, iniziando a parlarne apertamente, senza vergogna. Crescevo i miei figli dicendo loro di affrontare le proprie paure ma ero stato il primo a non averlo fatto, quando sono letteralmente scappato dal mio Paese per timore del contraddittorio cui ero sottoposto”.

La cosa bella della vostra storia è quanto abbiate imparato, separatamente ed insieme, sull’arrampicata e su come vi fa sentire.
Caroline:
“Il punto è che arrampicare deve farci stare bene. Abbiamo entrambi attraversato momenti in cui questo non accadeva, ma ha vinto l’amore che provavamo e che proviamo ancora per questa disciplina. E che cerchiamo di trasmettere anche ad Arthur e Zozo, i nostri figli, oltre che agli atleti de La Sportiva che seguiamo nel nostro nuovo lavoro”.

Di che cosa si tratta?
Caroline
: “Dallo scorso aprile guidiamo La Sportiva Climbing Pro Team, per sostenere la crescita professionale e lo sviluppo degli atleti sponsorizzati dal brand. In parole povere, cerchiamo di evitare che quanto successo a noi capiti anche a loro, attraverso un approccio più disteso ed efficace alla performance. È un messaggio forte all’interno del mondo dell’arrampicata e siamo davvero felici di esserne promotori”.

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