
L’aria si fa frizzante in questi ultimi giorni d’estate. Con il mio giovane – anzi giovanissimo – compagno di cordata dirigiamo verso un angolo dolomitico nascosto in Lombardia. A poca distanza dalla pianura operosa si innalza una fascia verticale di rocce come celebri crode dei Monti Pallidi.
In breve lasciamo alle spalle il “non-luogo” della ski area, le processioni ordinate verso i vicini sentieri attrezzati. Noi mettiamo le mani sulla dolomia verticale, la stessa che nel maggio del 1933 accolse le dita e le movenze eleganti di Emilio Comici, in compagnia di Mary Varale, Riccardo Cassin, Mario Dell’Oro detto “Boga” e Mario Spreafico detto “l’Umett”.
La via ci regala poche ma intense lunghezze ombrose, pareti diritte, prettamente dolomitiche, intervallate da terrazzi che seguono la stratificazione tipica della Dolomia Principale, compatta e massiccia.
Questa roccia porta con sé una lunga storia, il termine “Dolomia Principale” fu introdotto da Lepsius nel 1876, riprendendo il nome “Hauptdolomit” coniato vent’anni prima dal geologo Von Guembel nelle Alpi Bavaresi. Si tratta di un’unità geologica ben definita per estensione, caratteristiche litologiche e di grande impatto visivo, con pareti d’aspetto massiccio, compatto, chiaro. Affiora dalla Lombardia occidentale fino alla Slovenia, con spessori che arrivano a superare i 1500 metri. È la testimonianza di un antico ambiente di formazione costituito da piane di marea tropicali, con acque poco profonde, calde e saline. Circa 220 milioni di anni fa, le condizioni ricordavano quelle che oggi possiamo incontrare nelle Bahamas o nelle lagune del Golfo Persico.
Mentre arrampico in spaccata lungo il diedro-camino iniziale, penso alla maestria dei pionieri e alla peculiarità di questa dolomia, capace di scolpire nel quadro naturale, bastioni e pilastri che definiscono l’immaginario stesso delle Alpi.
Quasi in vetta scaliamo l’elegante variante lungo un muro bianco, compatto, che ci conduce all’arioso terrazzo sommitale. A nord riconosco le mie montagne del Bernina, i ghiacciai esausti, appena rimbiancati da una sottile nevicata di fine estate.
Luca sorride, è la sua prima esperienza su un itinerario così verticale, un ingresso diretto nel grande libro di pietra.
Dall’alto la geografia si apre in un disegno chiaro, i crinali appaiono come spine dorsali, i solchi vallivi come arterie, il lago e la pianura sfumano all’orizzonte. La discesa scivola veloce tra facili roccette e creste erbose, già impregnate di quel sottile e penetrante profumo di fiori ormai passati, forse dell’Anthyllis vulneraria, una leguminosa che cresce tra i pascoli e le rupi, a metà tra l’acre, erbaceo-fermentato, la lana bagnata e i calzettoni usati, segnale inconfondibile dell’autunno in arrivo.
Su questi pilastri dolomitici hanno lasciato la loro firma nomi che oggi appartengono alla memoria collettiva dell’alpinismo come Eugenio Fasana, Ettore Castiglioni e Vitale Bramani. E, in quel maggio del ’33, l’estro di Comici e dei suoi compagni, che aprirono una via che ancora oggi tiene insieme la storia e la freschezza di chi, per la prima volta, alza lo sguardo verso l’alto.