Gente di montagna

25 anni fa, il viaggio di Mike Horn lungo l’Equatore

L’avventuriero sudafricano dà il meglio di sé nelle avventure “orizzontali” come il periplo della Terra lungo il Circolo Polare Artico o l’Equatore. Quest’ultimo viaggio termina il 27 ottobre del 2000, dopo 40.000 km in barca, in bici e a piedi.

Litorale del Gabon, 2 giugno del 1999. Un uomo si tuffa in acqua da una spiaggia a sud della capitale Libreville, poi nuota seguito dalla moglie e da qualche amico verso un piccolo trimarano all’ancora. Mentre gli altri si accomodano su due barconi, l’uomo sale a bordo della Latitude 0, alza le vele, e punta la prua a ovest. Quando il sole si abbassa, i barconi e i loro passeggeri tornano verso terra.

Davanti a Mike Horn sono i 5.000 chilometri di Atlantico che lo separano da Macapà, in Brasile. Un percorso che sembra infinito, ma che è solo la prima tappa nel suo viaggio in solitaria lungo l’Equatore, 40.000 e più chilometri, con tratti in barca a vela e altri a piedi o in mountain-bike.

“Ho lavorato giorno e notte per trovarmi dove sono ora, su una barca che ha appena lasciato il Gabon” scrive Mike alla moglie Cathy, “merda, lo sto facendo davvero!”. E scoppia in un pianto liberatorio e dirotto.

Nato a Johannesburg, cresciuto tra i vigneti del Capo, Mike Horn ha combattuto in Angola, poi ha scelto l’avventura e la pace. Si trasferisce in Svizzera, incontra Cathy, inizia a organizzare discese di fiumi e canyon nel Vallese.

Nel 1997 compie la prima discesa del Rio delle Amazzoni con l’hydrospeed, una tavola con un piccolo motore a getto. Per raggiungere il fiume e la sua foresta è partito dalla costa del Pacifico e ha scavalcato a piedi le Ande.

Tra il 2002 e il 2004, Mike effettuerà il primo giro della Terra lungo il Circolo Polare Artico. Un itinerario di 20.000 chilometri, che affronterà in parte sugli sci e in parte con un kayak dotato di una piccola vela. In media camminerà, remerà o scierà dalle 12 alle 16 ore al giorno.

Con il vento, un paracadute aiuterà Mike Horn a trascinare una slitta di quasi due quintali di peso. A creargli dei problemi saranno gli incontri con orsi polari e grizzly, e la polizia di frontiera russa che lo fermerà a lungo a Providenya, sul Mare di Bering.

Dal 2007, Mike affronta le grandi montagne della Terra. Sale senza ossigeno supplementare e portatori d’alta quota i Gasherbrum I e II, il Broad Peak e il Makalu, nel 2015 il maltempo gli impedisce di toccare la cima del K2 con gli svizzeri Fred Roux e Köbi Reichen. Nello stesso anno Cathy viene uccisa da un tumore. Da allora, ad accompagnare Mike tra viaggi e conferenze sono spesso le figlie Jessica e Annika. Poi arrivano le traversate sugli sci dell’Antartide (2016-‘17) e del Polo Nord (2019).

La traversata atlantica come antipasto del viaggio. Poi, l’Amazzonia e le Ande

Sull’Atlantico, dal primo giorno, Mike deve imparare a gestire le vele (una randa, un piccolo fiocco e un gennaker) del Latitude 0. La notte, la scarsa autonomia della batteria alimentata da un pannello solare lo costringe a svegliarsi ogni due ore.

Mike Horn passa tre giorni e tre notti senza dormire, poi crolla. E quando si addormenta davvero la barca rischia di schiantarsi sulle scogliere dell’isola di São Tomé. Poi tutto fila liscio, fino alla tempesta che investe la barca a 400 miglia dal Brasile. Raffiche violente di vento, poi calma piatta e diluvio, infine onde enormi e un vento più forte di prima.
Evitata la collisione con un cargo, la Latitude 0 entra nell’estuario del Rio delle Amazzoni e raggiunge Macapà. Dopo tre giorni di controlli doganali e sanitari, il sudafricano può scendere a terra per abbracciare Cathy e le figlie.

Qualche giorno dopo, Mike inizia a risalire il grande fiume sulla Latitude 0, seguito da una barca con la famiglia, un cameraman e un fotografo. Sbarca, sale su una mountain-bike, pedala per un giorno, poi continua a piedi, nella foresta dell’Amazzonia, per 3.500 chilometri.

Sulle spalle ha uno zaino da 100 litri, con un camelpack che gli consente di bere. Ai piedi ha scarpe da trekking basse, dorme in un’amaca coperta per proteggersi dagli insetti. Comunica con il mondo grazie a un telefono satellitare alimentato da un pannello solare. Non è possibile portare nello zaino il cibo per un trekking di settimane. Horn si nutre di scimmie, maialini selvatici e piccole antilopi che cattura con le trappole. Completa la dieta con frutta e bacche selvatiche.

Il diciottesimo giorno, la foresta lascia lo spazio a una vasta palude. Il trentacinquesimo, il morso di un serpente gli impedisce di camminare e lo acceca. Dopo altri cinque giorni evita un ragno velenoso, poi trova una cascata per lavarsi e un fiume dove pescare.

Dopo due mesi, aggirate due riserve indigene dove teme di essere male accolto, Mike Horn baratta una lampada frontale con una piroga, e pagaia per 200 chilometri fino alla diga in costruzione di Balbina, dove lo attende il fratello Martin. Dopo due notti in un letto, riparte in mountain-bike sulla strada Transamazzonica.
Segue un tratto in piroga sul Rio Negro, che poi si apre in un lago dov’è difficile orientarsi. Il divieto di attraversare un’altra riserva lo costringe ad abbandonare la piroga, e camminare nell’acqua tirando un canotto con lo zaino.

Mike traversa il Lago di Maraa sul canotto, ripreso dal fotografo e dal cameraman arrivati dalla Svizzera. A Vila Bittencourt rifiuta l’offerta di un posto su un volo militare per Manaus, e raggiunge in piroga il posto di frontiera colombiano di La Pedrera.
I militari lo mettono in guardia contro le rapide del fiume, e i narcotrafficanti che presidiano le rive. Mike incontra due indios che lo conducono al loro villaggio, poi il capo dei Guerreros, i miliziani al soldo dei produttori di coca, gli permette di continuare sul fiume. Da La Tagua, controllata dall’esercito, arriva a piedi a Puerto del Carmen, dove trova una nuova mountain-bike. Una serie di posti di blocco (siamo al confine tra Colombia, il Perù e l’Ecuador) precede la salita verso le Ande. Dal villaggio di Cayambe, dove sono arrivate Cathy e le ragazze, Mike sale a piedi sul vulcano omonimo, 5790 metri. Una lunga discesa in mountain-bike lo conduce a Quito e a Pedernales, sul Pacifico.

L’Oceano Pacifico e l’Oceano indiano prima della traversata finale dell’Africa

La burocrazia ecuadoregna e un attacco di malaria lo tengono bloccato a lungo. Il 13 dicembre riparte per la traversata dell’Oceano Pacifico, che è lunga quasi quattro volte (18.000 chilometri invece di 5.000) quella dell’Atlantico.
Nei primi giorni, le rotture del pilota automatico e della radio lo costringono a chiedere aiuto, e i pezzi di ricambio lo raggiungono alle Galápagos. Poi Mike riparte, festeggia in navigazione il Capodanno del 2000, affronta onde gigantesche e attacchi di malaria. Ma è la dimensione del Pacifico a stordirlo.

“Questo oceano è così vasto da sembrare una specie di tapis roulant liquido, che scorre sotto di me all’infinito. Una specie di moto perpetuo, di cui sono prigioniero” annota. Mike osserva a distanza le isole Kiribati, e viene “invitato a pranzo” dal capitano della nave York, che gli lancia un contenitore pieno di cibo.

Poi arriva l’Indonesia. Aggirata Halmahera, insanguinata da scontri tra islamici e cristiani, un tornado sull’isola di Bunaken scaraventa la Latitude 0 sugli scogli. Dopo la riparazione, Mike traversa a piedi e in bici Sulawesi, il Borneo e Sumatra. A maggio, nell’Oceano Indiano, una serie di tempeste rischia di affondare la barca.

Dopo una sosta per riparazioni alle Maldive, l’ultima traversata oceanica non oppone difficoltà di rilievo. Da Lamu, Mike attraversa in bici la steppa desertica del Kenya, sale in arrampicata ai 5199 metri del Batian, la vetta più alta del Monte Kenya, poi prosegue verso Nairobi.

Le ultime difficoltà sono opposte dai ribelli e dai militari corrotti del Congo, che tentano di rapinare e di uccidere il viaggiatore solitario. Venerdì 27 ottobre 2000, 514 giorni dopo la partenza, Mike Horn torna al punto di partenza, sulla spiaggia del Gabon.

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