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“Eroi silenziosi”, Bernadette McDonald racconta gli alpinisti dell’Asia

Dai tempi di Tenzing e di Mahdi fino a quelli di Nirmal Purja, Mingma G. e Sajid Sadpara il mondo dei migliori alpinisti dell’Asia è cambiato. Da portatori ad alpinisti e guide alpine, padroni sulle loro montagne di casa

Cresta sommitale del Nanga Parbat, luglio del 1934. Una lunga cordata di alpinisti germanici e sherpa cerca di tornare a valle nella neve profonda e nella bufera. Poche ore prima, due componenti del gruppo hanno sfiorato i 7900 metri di quota. Ora, però, la situazione è drammatica. 

Di colpo, dove la cresta si allarga, compaiono due paia di sci che erano stati piantati nella neve. Due tirolesi, Erwin Schneider e Peter Aschenbrenner, si slegano, fissano gli sci agli scarponi e scendono veloci verso la salvezza. Gli sherpa devono continuare a piedi, battendo traccia con una fatica bestiale. Nei giorni che seguono sei di loro (più tre europei, incluso il capospedizione Willy Merkl) perdono la vita sul Nanga. 

Nella storia dell’alpinismo, da sempre, l’altruismo e l’egoismo convivono l’uno accanto all’altro. Sappiamo che la spedizione tedesca del 1934, come quella organizzata tre anni dopo, ha l’appoggio di Adolf Hitler e del partito nazionalsocialista arrivato da qualche mese al potere. Liquidare come “nazisti” Aschenbrenner e Schneider, anche se è probabilmente vero, rischia di far passare in secondo piano gli atteggiamenti analoghi di alpinisti di Paesi diversi.

Dodici anni prima della tragedia del Nanga Parbat, negli ultimi giorni della spedizione britannica del 1922 all’Everest, una valanga uccide sette portatori d’alta quota, tibetani e sherpa, sui pericolosi pendii di neve del Colle Nord. “Perché non è accaduto che uno di noi inglesi condividesse la loro sorte?” scrive nel suo diario Howard Somervell, uno dei migliori alpinisti del gruppo, che scampa come George Mallory alla strage. 

Qualche settimana più tardi, però, Sir Francis Younghusband, grande esploratore ottocentesco, ora presidente della Royal Geographical Society e promotore della spedizione, ha un tono ben diverso. “Grazie al cielo, nessun europeo ha perso la vita” scrive in un commento ufficiale. 

Bernadette McDonald, canadese, ex-direttrice del Banff Mountain Festival e autore di vari libri importanti, racconta questi due episodi all’inizio di Eroi silenziosi, Alpine Rising nella versione originale (Mulatero, 288 pagine, 25 euro). Il libro che ha dedicato agli alpinisti dei Paesi himalayani (sherpa, hunza, baltì, bhotia o di altre etnie ancora) che hanno contribuito all’esplorazione delle loro montagne di casa lavorando per i sahib, gli stranieri arrivati dall’Europa, dal Nordamerica o da altre aree ricche del pianeta. 

È una storia nella quale, soprattutto all’inizio e alla fine, si incontrano molti nomi famosi. È il caso di Tenzing Norgay, lo sherpa nato in Tibet e vissuto a lungo a Darjeeling, in India, che partecipa nel 1953 alla prima ascensione dell’Everest, e diventa una celebrità in tutto il mondo. 

Oppure di Amir Mahdi, nato nella valle pakistana di Shimshal, che condivide con Walter Bonatti (ma con scarponi molto peggiori dei suoi) il famoso e terribile bivacco a 8100 metri di quota sul K2, e poi subisce delle amputazioni che lo rendono per sempre invalido.   

Nell’alpinismo di oggi, compaiono nel racconto di McDonald stelle degli “ottomila” come Nirmal “Nimsdai” Purja, Mingma G. Sherpa o Kami Rita Sherpa, al tempo stesso guide e imprenditori di successo, capaci di salire l’Everest e gli altri giganti a ripetizione, e di condurre su quelle altissime vette clienti con alle spalle pochissima esperienza di montagna. 

Il merito dell’autrice, però, sta nell’aver approfondito le storie di altre decine di uomini – e di qualche donna, soprattutto in tempi recenti – che hanno affrontato le montagne più alte e ostili della Terra prima come portatori, poi come portatori d’alta quota (non è una differenza da poco!), infine come guide alpine spesso titolate dall’UIAGM, professionalmente alla pari di quelle del Monte Bianco e del Cervino.

Grazie all’autrice, per esempio, scopriamo la storia di Ang Tharkay, “il padre delle moderne guide sherpa”, che prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale affronta il Nanda Devi con Eric Shipton e l’Annapurna con i francesi del 1950. Qualche decennio dopo balza alla ribalta Nawang Gombu, fortissimo sherpa di Darjeeling e primo uomo a salire l’Everest per due volte. 

La copertina di Eroi silenziosi

È un personaggio più semplice Little Karim, vero nome Mohammad Karim, nato nel villaggio pakistano di Hushe, diventato celebre per la sua capacità di portare a spalla, sul K2 e sui Gasherbrum, dei carichi più alti e pesanti di lui. Nell’evoluzione degli sherpa ha un ruolo significativo Pertemba, nato a Khumjung, che diventa il sirdar di varie spedizioni di Chris Bonington, e nel 1975 arriva sugli 8848 metri dell’Everest lungo la parete Sud-ovest. 

In epoche ancora più recenti, mentre in Nepal si affermano i “super-sherpa” delle grandi agenzie di successo, in Pakistan arriva il momento di Alì Sadpara, che partecipa nel 2016 alla prima invernale del Nanga Parbat e perde la vita cinque anni dopo, sempre d’inverno, sul K2. Il passaggio del testimone da Alì a suo figlio Sajid, uno dei più noti alpinisti pakistani di oggi, ci porta alla parte del libro dedicata al presente. 

Lasciamo al lettore il piacere di scoprire nomi e storie negli ultimi capitoli di Eroi silenziosi. Vale la pena, però, approfondire alcuni filoni di questa evoluzione, come l’affermazione accanto agli sherpa di alpinisti di altre etnie nepalesi come Prakash Gurung, Vinayak Malla (della valle di Kathmandu!), Abiral Rai e lo stesso Nirmal Purja. 

È altrettanto importante, in un mondo alpinistico che continua a parlare troppo spesso al maschile, l’aumento delle donne anche tra gli alpinisti di punta dell’Asia. Le storie di Dawa Yangzum Sherpa (prima nepalese a diventare guida alpina UIAGM), di Pasang Lhamu Sherpa e di tante altre meritano di essere lette con attenzione. Lo stesso vale per quelle dei giovani alpinisti del Pakistan – tra loro Sirbaz Khan, Ali Durrani, Samina Baig – che, come i loro colleghi nepalesi, sono diventati padroni a casa loro. 

Nell’ultima pagina del libro, l’autrice inserisce una lunga citazione di Pem Pem, figlia di Tenzing Norgay, che merita di essere condivisa anche qui. “So che mio padre sarebbe disgustato dal tamasha (baraonda) che c’è oggi sull’Everest, ma da vecchio ha capito cosa potesse significare per la sua gente scalare quella montagna. Tenzing era ambizioso ma anche umile – non ossequioso o represso, solo umile. Sarebbe però contento di sapere che gli alpinisti di oggi stanno andando così bene. Hanno finalmente il rispetto che meritano”.                      

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