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A tu per tu con Stefano Ghisolfi: “esplorare il limite è il mio principale obiettivo”

Capace di conciliare egregiamente arrampicata in falesia e competizioni, il climber torinese racconta il suo approccio alla roccia, alla montagna e ai prossimi progetti

Attualmente impegnato in Svizzera, fra i massi granitici del Passo di San Gottardo, Stefano Ghisolfi ci ha confidato di volersi concentrare nel boulder, chiudendo qualche duro blocco prima di puntare il tutto e per tutto su uno dei progetti ancora irrisolti della sua carriera arrampicatoria. Si tratta di Silence, il 9c liberato nell’autunno 2017 dall’allora ventiquattrenne Adam Ondra – fuoriclasse ceco che, dentro quella grotta di Flatanger, in Norvegia, ha davvero scritto un capitolo importantissimo nella storia dell’arrampicata sportiva mondiale. Ma in questo sport la storia non si scrive mai da soli e il grado di un tiro lo decidono spesse volte le sue ripetizioni, per poche che siano. Anche in questo, nelle tante ripetizioni di vie al limite, Stefano si distingue per la propria onestà senza fronzoli, lontana dalle urla di chi vuole primeggiare ad ogni costo: dopo aver ripetuto nel 2021 Bibliographie a Ceüse, in Francia, il cui apritore, Alex Megos, aveva proposto il grado 9c, Stefano ha (s)gradato il tiro ad un 9b+, rinunciando in questo modo a diventare il terzo climber al mondo ad aver scalato il grado più difficile di tutti, ma mantenendo al contempo altissima l’asticella delle proprie ambizioni e dei conseguenti sforzi messi in campo per raggiungerle.

Abbiamo avuto il piacere di incontrare Stefano e di farci raccontare alcuni aspetti del suo approccio alla scalata e alla montagna grazie ad AirBnb, che presenterà a breve un progetto proprio con Ghisolfi come protagonista.

Quando e come è cominciata la tua storia d’amore con l’arrampicata sportiva?
Ho iniziato a undici anni, grazie un corso in palestra per principianti, iniziando subito dopo a fare le prime gare. La competizione è un aspetto che mi è piaciuto immediatamente, perché avevo un background agonistico nella mountain bike e nella bici. Per me il passaggio all’arrampicata si è allora configurato semplicemente come un cambio di sport. La scalata su roccia mi affascinava altrettanto, man a mano che crescevo, e la trasformazione più significativa che mi ha permesso di introdurla nella mia routine e di portarla avanti parallelamente all’agonismo è la patente di guida: una volta maggiorenne, ottenuta la mia indipendenza e la mia prima automobile, girare per falesie con gli amici è diventato qualcosa di appagante quasi quanto le gare.

Hai scelto di coltivare sia l’arrampicata agonistica sia le performance di alto livello in falesia: come riesci a conciliarle?
È vero, con il tempo per me sono diventate due cose complementari, anche se mi accorgo di come sempre meno arrampicatori mantengano un alto livello in entrambe: l’arrampicata sportiva intesa in senso agonistico si sta sempre più specializzando, a maggior ragione dopo l’esordio olimpico della disciplina, e questo sembra escludere l’arrampicata performativa in falesia dall’orizzonte di molti atleti. A me piace invece differenziare: è qualcosa che mi aiuta anche a livello psicologico, per non entrare in loop altrimenti pericolosi, mantenendo alta la motivazione lungo tutto l’arco dell’anno attraverso obiettivi diversificati. Se va male una competizione su cui avevo puntato tanto, per esempio, so che ho comunque un progetto in falesia altrettanto valido da portare avanti: spesse volte, grazie a questo, quello che all’inizio era magari il mio piano A diventa poi il piano B e viceversa, in un processo che mi permette di sviluppare anche un buon spirito di adattamento, altrettanto prezioso in gara come nel quotidiano.

L’arrampicata come maestra di vita dunque. E per un numero sempre crescente di persone: che cosa ne pensi di questo aumento esponenziale di praticanti? Quali sono, dal tuo punto di vista, i pro e i contro?
Di positivo ci sono i numeri, che sono cresciuti tanto, e questo a me piace. Mi rendo conto che non a tutti piace, perché alcuni scalatori magari preferiscono continuare a praticare uno sport di nicchia. Io non la penso così, proprio perché mi sembra bello aprire la possibilità di praticare lo sport che preferisco a tante persone in più: cosa c’è di meglio di assistere alla condivisione di una passione che hai anche tu? Quando ho iniziato a scalare io, a Torino c’era una palestra sola ed era il 2004. Adesso, sempre a Torino, di palestre ce ne sono ben dieci. Questo aumento esponenziale ha consentito all’arrampicata – almeno quella indoor – di configurarsi come uno sport al pari di tutti gli altri. Cosa che però, allo stesso modo, ci costringe a prestare attenzione proprio nel passaggio dall’indoor all’ambiente naturale, perché numeri del genere, se non vengono gestiti bene, possono creare dei danni altrettanto esponenziali. La responsabilità ricade molto sugli istruttori e sulle guide alpine, nell’educare sia al rispetto dell’ambiente che alla padronanza di manovre di sicurezza che in uno spazio protetto come la palestra possono sembrare superflue ma che in realtà sono imprescindibili, se si vuole approcciare questo sport anche dal suo lato meno sportivo e più outdoor, di avventura.

A tal proposito, il tuo rapporto con l’avventura com’è? Hai mai pensato di iniziare ad arrampicare anche in montagna, di approcciare le vie lunghe o addirittura l’alpinismo, come molti “ex garisti” negli anni hanno fatto, dalla Destivelle a David Lama?
Per ora no, in futuro chissà. Spesso mi viene posta una domanda simile per quanto riguarda il free solo, una disciplina decisamente più “controllata”, nel senso che il limite lì è meno spinto: non puoi rischiare di alzare troppo l’asticella senza una corda in grado di arrestare un’eventuale caduta. Ecco, a me invece il limite piace ancora molto, sento che quello che voglio fare in arrampicata è continuare a limare la mia soglia, spingermi oltre e capire fin dove posso arrivare. Nel free solo, nelle vie lunghe e in alpinismo è più difficile farlo per davvero, o comunque in un modo simile, perché spingere diventa più pericoloso e mette in gioco non soltanto il tuo progetto, la cui importanza resta relativa, ma la tua intera vita. Non sono ancora pronto a questo.

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