A tu per tu con Patrick Gabarrou, il “contemplactif”
Lunga chiacchierata con il leggendario scalatore francese, che pone in primo piano “l’uomo, la condivisione della fatica e la bellezza dei luoghi”. Quell’amore infinito per il Gran Paradiso
«È dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi ma lagrime ancora e tripudi suoi». Quando si ascolta Patrick Gabarrou, viene in mente la poetica del Fanciullino di Giovanni Pascoli. Un uomo capace di conoscere il mondo in modo autentico, sempre con stupore, meraviglia e intuito. Un uomo che traccia segni sulle montagne e le trasforma in poesia. Pur con oltre 300 vie aperte e una carriera alpinistica lunga 50 anni, del Gab colpisce soprattutto lo sguardo. Profondo, visionario, trascendente ma anche fervido, appassionato, generoso. Lo stesso sguardo profetico che gli ha permesso di individuare e aprire linee come Supercouloir, Divine Providence, Direttissima alla punta Walker. Nomi incisi nelle grandi pagine di storia dell’alpinismo.
Oggi, a 74 anni, non si è ancora fermato e, oltre a salire e scendere dalle montagne, ama accendere scintille di meraviglia in chiunque lo incontri. Lo ha fatto anche con me, al Forte di Bard.
Patrick, perché si va in montagna?
Perché siamo sognatori. Seguiamo il sogno dell’altezza, del mistero, della neve, della bellezza. È come quando, da bambino, arrivando in un villaggio di montagna, vidi per la prima volta una cima innevata e dissi: “Papà, andiamo lassù”. Non per possederla, ma per il puro desiderio di andarci. È un richiamo che ti prende dentro e non ti lascia più. Un richiamo che dura da 60 anni. Io non avrei mai lasciato la montagna, se non per qualcosa di ancora più grande: il dono di sé agli altri.
La montagna è più azione o contemplazione?
Un equilibrio tra le due. Io uso il termine “contemplactif” (contemplattivo). Ho dentro una grande energia vitale, anche un lato competitivo, ma nel senso buono: non per schiacciare gli altri, ma per essere vivo. Nell’essere umano c’è latente una forza fisica e mentale enorme, di cui prendiamo consapevolezza solo nell’azione. E in questo senso le donne sono spesso molto più forti degli uomini, perché hanno un’enorme forza vitale.
Allo stesso tempo la montagna è immersione nella bellezza, apertura dello sguardo, gratitudine. Non parlo mai di bellezza del mondo, ma di bellezza della creazione: vediamo solo una piccola parte dell’inimmaginabile bellezza che ci è stata donata. Salire in montagna è dire grazie con i piedi e con lo sguardo.
Gian Piero Motti scrisse, parlando del Supercouloir, “siete saliti dove nessuno si era mai accorto ci potesse essere una via”
È un’esagerazione, il Supercouloir non è un buon esempio perché è evidente, sotto gli occhi di tutti quelli che fanno la Vallée Blanche! Bonatti e Desmaison semplicemente non avevano ancora la piolet traction per poter salire queste linee. Noi siamo arrivati in una nuova epoca di scoperta dell’alpinismo, con le linee di ghiaccio e misto finalmente percorribili. Però sì, lo sguardo è fondamentale. È ciò che ti permette di vedere una linea. Ad esempio, Divine Providence… lì non sapevamo neppure se si potesse uscire in cima. Nel mio caso credo si tratti di sensibilità. Ho sempre avuto un buon senso della linea di debolezza, forse perché non ero mai il più forte. Cercavo il varco, la soluzione.
Il rapporto con la paura?
All’inizio la paura era forte. Ricordo la prima volta in falesia: avevo il cuore in gola. Poi mi sono “educato” a quella paura, con la volontà e l’amore proprio. Col tempo impari a conoscerti, a conoscere l’ambiente. Sai che ci sono dei pericoli oggettivi ma conosci anche bene le tue capacità. Quando ero giovane spingevo di più, oggi so mettere l’ego da parte senza problemi. La paura rimane, ma diventa consapevolezza: capire quando vale la pena andare avanti e quando è meglio fermarsi.
Che ruolo ha la cordata nella sua vita?
Essenziale. Ho fatto qualche solitaria, ma ho sempre amato la presenza dell’altro. In cordata c’è amicizia, rispetto, ammirazione reciproca. Non importa chi mette il primo chiodo: l’importante è condividere. Le vie più belle le ho aperte sempre con compagni, mai da solo. La cordata è il luogo dove si impara l’umiltà: l’altro ti salva e tu salvi l’altro, a volte senza nemmeno doverlo dire.
Un ricordo legato a questo?
La “Jean-Claude Bertrand” alla nord dei Drus, aperta con Alexis Long, il mio fratello di cordata. L’abbiamo dedicata a Jean-Claude, che mi aveva fatto conoscere l’alpinismo. Dopo la sua morte, ho aspettato undici anni per trovare una linea abbastanza bella da portare il suo nome. Quando abbiamo piantato l’ultimo chiodo, ho pensato: “Ecco, Jean-Claude, questa è per te”. Tra tutte è la via a cui tengo di più.
Il Gran Paradiso ha un posto speciale nel suo cuore.
Per me è il cuore sconosciuto delle Alpi. Ha tutto: ghiacciai, valloni, cime, tradizioni. Dal fondovalle in su c’è solo bellezza. Amo anche gli angoli meno frequentati, come il ghiacciaio della Tribolazione, che per me è l’Himalaya delle Alpi. E poi c’è la statua della Vergine in cima, che per me, cristiano, è un simbolo potentissimo. Mi piace recitare l’Ave Maria in italiano con i compagni: per un francese suona come una lingua musicale, e vedo che spesso emoziona anche chi non è credente.
La fede ha influenzato il suo alpinismo?
Sì, profondamente. Non è che preghi mentre arrampichi, ma vivo nella gratitudine. Penso spesso a chi non può essere lì e offro la salita per loro. A volte recito piccole preghiere, come un mantra, senza imporle a nessuno, ma testimoniandole con semplicità. Per me la montagna è anche uno spazio di silenzio: salire in rifugio e tacere per un quarto d’ora, essere presenti, ringraziare. Salire non solo per te, ma anche per chi non può.
Aprire una via è lasciare qualcosa alle generazioni future?
Non sempre. A volte è un dono a una persona, a un luogo. Ho aperto vie per amicizia o per ringraziare qualcuno. Certo, c’è una parte di orgoglio, ma con il tempo capisci che l’essenziale non è il tuo nome sulla guida, ma ciò che hai vissuto e condiviso. Quando un compagno muore, resta l’amicizia vissuta in parete, non la tacca sulla storia.
La montagna mette anche davanti alla morte.
In montagna la morte è una possibilità reale, anche da giovani. Ti obbliga a chiederti qual è il senso della vita. Non rinnego la montagna per questo: anzi, credo che riempia l’anima e nutra la bellezza interiore. E se un amico muore, lo affido a Dio perché continui la sua ascensione altrove. Ho imparato che siamo tutti solo di passaggio, e che la cosa più bella è arrivare alla fine con gratitudine.
Dopo l’ultima via nuova sul Monte Bianco ha detto “mi fermo qui”. È così?
Ho ancora voglia di salire, ma so che devo scegliere cosa fare. È importante fermarsi prima che diventi pericoloso per sé e per gli altri. Adesso amo scendere un gradino alla volta, restare nella gratitudine e lasciare spazio ai giovani, dire loro: “Vas-y, tocca a te”. Non c’è sconfitta nel fermarsi: è un modo per custodire la bellezza di quello che è stato.