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Nanga Parbat, la montagna nuda

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Il Nanga Parbat con i suoi 8125 metri, è la nona montagna più alta della Terra. Ma in termini di pericolosità, è in testa alla classifica. Basti pensare che il suo nome significa "montagna nuda" in lingua Urdu, ma gli sherpa, gli abitanti della regione himalayana, la chiamano "la mangiauomini" o la "montagna del diavolo". E’ drammatica, infatti, la sua storia: prima di essere conquistata nel 1953, 8 spedizioni l’avevano già tentata provocando 31 morti, molti dei quali tedeschi. Tra le più celebri quella di Albert Frederick Mummery che ha perso la vita sulla parete Rakhiot.

"Il Nanga Parbat è una delle montagne più ambite dell’Himalaya, e il più occidentale degli ottomila. Il suo massiccio, di dimensioni enormi, domina l’imponente gola del fiume Indo; è una visione impressionante, e io rimasi alcuni minuti senza fiato quando mi trovai per la prima volta di fronte a quella forza della natura. Da qualunque lato si affronti il Nanga Parbat, ci si trova sempre di fronte a 4000 metri di dislivello da superare, più che nella salita dell’Everest, tanto per fare un esempio".

Con queste parole Hans Kammerlander apre il racconto della sua salita al Nanga Parbat, nel suo libro "Malato di montagna":  questo colosso pakistano, tanto affascinante quanto pericoloso, rappresenta nella storia dell’alpinismo una delle sfide più difficili tra tutti i 14 ottomila.

La montagna è costituita da tre versanti: a nord il Rakhiot, a ovest il Diamir e il Rupal a est. Dei tre lati quello più difficile è forse la Rakhiot, che  come tutte le pareti nord, è meno soleggiata, più ripida, coperta di accumuli di neve e ghiaccio, e quindi più ostile. Fino alla scalata di Karl Unterkircher, Walter Nones e Simon Kehrer vantava solo due vie di salita, entrambe peraltro aperte sul bordo del versante: quella usata da Hermann Buhl nella prima salita del 1953 e e quella dei giapponesi del 1995.

La spedizione dei tre alpinisti italiani che oggi è sotto i riflettori delle cronache è la prima, nella storia, ad aver avuto il coraggio di affrontare questa parete dritti al centro. Ora, là nel cuore della Rakhiot, campeggia quindi un’altra via, aperta da Nones, Kehrer e Unterkircher che ha perso la vita durante la salita.

Sul versante Diamir invece si trova la "via normale", la Kinshofer, aperta nel 1962: il percorso non sale in mezzo alla parete, resa pericolosa da frequenti valanghe provenienti dal ghiacciaio pensile. La Kinshofer sale lungo lo sperone sul lato sinistro della parete. Sempre sul Diamir si è svolto il tentativo di salita di Mummery del 1895. Mummery circa a quota 6100 attraversò il Diama Pass raggiunendo la parete Rakhiot, dove il grande scalatore perse la vita. Ancora sulla parete Diamir si trova la via di Messner, che l’altoatesino aprì in solitaria (la prima completa) nel 1978.

Reinhold Messner e suo fratello Gunther furoni i primi a conquistare la cima dalla parete Rupal, nel 1970. Salirono in stile alpino, senza ossigeno e senza portatori. I due, a causa della stanchezza accumulata da Günther durante la salita, dopo aver raggiunto la vetta decisero di scendere dalla più agevole parete ovest. Dopo aver bivaccato più giorni all’aperto, quando erano quasi arrivati alle pendici della montagna, Günther Messner fu però travolto da una valanga e morì. Questa versione, contestata da alcuni, poté essere confermata solo nell’agosto 2005 quando fu ritrovata la salma.
 
Il Nanga Parbat è famosa come la "montagna dei tedeschi". Negli anni ’30 infatti, partirono dalla Germania numerose spedizione che tentarono di conquistarla: è loro il più grosso tributo di vite versato su questa vetta.

Ma la salita più celebre sul Nanga Parbat rimane la prima, quella realizzata dal leggendario Hermann Buhl. La sua ascensione in solitaria fu tentata contro la volontà del capo spedizione Karl Herrligkoffer, che aveva dato l’ordine di tornare indietro. Buhl non gli diede retta e arrivò in cima, ma dovette poi passare la notte in piedia ottomila metri, perchè il terreno scosceso non gli consentiva di sdraiasi. Buhl non era attrezzato in modo particolarmente adatto a difendersi dal freddo e si ridusse al limite delle forze, riportando anche gravi congelamenti.

Buhl dalla cima del Nanga Parbat portò una foto fatta con l’autoscatto (unica prova della sua grande impresa) e un racconto memorabile, scritto nel suo libro "E’ buio sul ghiacciaio". Da lì è tratta questa breve citazione che lascia i brividi.

"…Si ha l’impressione di planare sopra ogni cosa, di aver perso ogni contatto con la terra, di essere staccati dal mondo e dall’umanità. Mi sembra di trovarmi su una minuscola isola in mezzo ad un oceano sconfinato. Verso nord, possenti montagne si perdono nel remoto orizzonte. Ad est si estende un altro ed analogo mare di innumerevoli cime, coperte di ghiaccio, inviolate, inesplorate: l’Himalaya."

Guarda le immagini:

Rakhiot: foto dalla missione di soccorso 
Nanga: la maledetta parete Rakhiot

 

Valentina d’Angella

 

 

 

 

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