Gente di montagna

A tu per tu con Anja Blacha, la “filosofa” degli Ottomila

All’alpinista tedesca ne mancano solo due - Lhotse e Shishapangma - per diventare la terza donna a completarli tutti senza ossigeno supplementare. Ma l’obiettivo del suo approccio alla montagna resta la capacità di meravigliarsene ogni volta

Trentacinque anni il 18 giugno, capelli biondissimi e sorriso contagioso, ma anche una laurea in filosofia – “per capire meglio il mondo” – e un passato da schermitrice. Anja Blacha, reduce dall’Everest, salito senza ossigeno lo scorso 27 maggio, è molto più di ciò che fa in montagna. Anche se ciò, già di per sé, non è assolutamente poca cosa. Anja è diventata infatti, nel 2017, la più giovane donna tedesca ad aver raggiunto il tetto del mondo, oltre che, qualche anno dopo, la più giovane persona tedesca in assoluto ad aver scalato tutte le Seven Summits. Come se non bastasse, nel 2019, è stata la prima donna teutonica ad aver salito il K2, la sua “vetta più bella”.

Appassionata di esplorazione a 360 gradi, nel 2020 Anja decise di raggiungere il Polo Sud, sciando per 57 giorni, 18 ore e 50 minuti dall’estremo nord dell’Isola Berkner ed entrando così a far parte di quel ristretto manipolo di avventurieri – cinque in tutto – capaci di compiere tale impresa.
Eppure non vedrete mai Anja vantarsi di quanto fatto. Né proporlo al mondo con l’enfasi che caratterizza invece tanti altri suoi colleghi. Si limita magari ad un breve post sui social, con didascalie stringate e la minima narrazione necessaria a ringraziare chi era con lei o chi la supportava: di fatto, molto meno di quanto un qualsiasi alpinista della domenica pubblichi in continuazione.
Il basso profilo, il desiderio di scoprire il mondo attraverso l’alpinismo e l’agio con cui sa affrontare gran parte dei propri obiettivi da sola sono le tre caratteristiche principali di Anja Blacha e del suo approccio alla montagna e all’avventura. Che abbiamo avuto il piacere di farci raccontare direttamente da lei.

Sola sull’Everest nelle scorse settimane e sola al Polo Sud cinque anni fa. Anche se, nel descrivere l’ultima spedizione, hai parlato di “solitudine supportata”. Che cosa significa per te?
Nel caso dell’Everest, che non ero da sola. Anche se durante gran parte della salita mi ci sentivo. Eppure il contatto radio con lo staff presente al campo due e al campo base era praticamente costante, tant’è che l’ultimo giorno ho dovuto interromperlo per riuscire ad assaporare veramente la cima come desideravo. Al Polo Sud invece ero sola veramente e la cosa che più amo di questo tipo di spedizioni è il modo in cui amplificano il tuo contatto con l’ambiente circostante, spesso repulsivo ma sempre affascinante.

Anche al Polo Sud eri “supportata” in qualche modo?
Ho avuto un mentore, che mi ha aiutata ad organizzare tutto attraverso i suoi consigli preziosissimi e un continuo confronto. Almeno prima di partire. Poi ho voluto riprendere in mano le redini del progetto, perché era il mio sogno, la mia spedizione in solitaria. Sai, rifiutare o bloccare l’aiuto di qualcuno che è stato così determinante per te è sempre difficile, qualcosa per cui sentirsi veramente in colpa. Il fatto è che poi, nell’ambiente ostico e selvaggio in cui ti ritrovi, il senso di colpa non esiste proprio più: sei solo e all’improvviso ogni problema scompare, fatte salve le questioni più tecniche che possono presentarsi durante la spedizione. Ma sono tutti problemi tuoi, non c’è nessuno con cui doverti confrontare, alcun compromesso da mettere in atto. Per certi versi è lliberatorio, per altri spaventoso, ma è qualcosa di davvero unico, che ti rende sul serio presente a quello che stai vivendo.

C’è un momento in particolare, di una qualsiasi spedizione, in cui questo senso di presenza al “qui ed ora” si fa più grande?
Direi quando scendo da una cima, durante il ritorno. Ho alle spalle la fatica maggiore, perlomeno a livello fisico, perché mentalmente devo essere ancora sul pezzo. Ma posso comunque concedermi il lusso di osservare più tranquillamente il cielo, ad esempio: e con esso le nuvole, il tramonto o l’alba che mi accompagnano, la neve che mi circonda. Vivere questo momento da sola è qualcosa che amo profondamente.

Forse proprio l’osservazione ammirata dell’ambiente è ciò che ti ha fatto appassionare in un primo momento all’alpinismo. Ho letto che hai cominciato a salire le montagne piuttosto tardi, nel 2015, quando avevi già 25 anni.
Sì, esatto. E penso tu abbia ragione. Molte persone approcciano quest’attività dal punto di vista della performance o comunque dello sforzo fisico. Viene posta molta enfasi sul mettere alla prova se stessi, soffrendo e faticando, come se fosse davvero quello l’obiettivo di una spedizione e dell’alpinismo generalmente inteso. Io credo di aver sempre sposato un approccio più lento e appagante, legato alla bellezza dell’esperienza, che non deve per forza coincidere con il dolore o quella che un tempo veniva chiamata la “lotta all’Alpe”. C’è così tanto per cui e con cui lottare nella vita quotidiana che, almeno da questo punto di vista, la montagna dovrebbe essere un luogo che si eleva e ci eleva.

Eppure, come ricordavi, non sempre è così. Per te lo è stato sin dal primo momento?
Direi di sì. Provengo da una famiglia di non-alpinisti. E intendo proprio che i miei genitori odiavano la montagna, la neve e tutto ciò che fa da corollario a quella che oggi è la mia passione principale. Perciò ho dovuto scoprirla da sola e l’approccio iniziale è stato quello di una curiosità sincera, legata tanto al fatto di meravigliarsi di fronte a qualcosa di nuovo. Ho iniziato a camminare in montagna insieme a mia sorella, quando avevo 23 anni. Mi resi conto di quanto quelle esperienze fossero davvero stimolanti per me: tornavo a casa felice. Un anno e mezzo più tardi ero riuscita a ritagliarmi quattro settimane di ferie e volevo fare un’esperienza diversa, magari in Argentina, un posto che avevo cominciato a sognare da qualche tempo. Fu così che a 25 anni iniziai a fare alpinismo, scalando l’Aconcagua grazie ad una fantastica guida alpina incontrata lì, che mi introdusse a questo mondo per me nuovo e con cui ogni tanto siamo ancora in contatto. È stato proprio lui a parlarmi del Denali: sognava di andarci e, una volta tornata a casa, ho iniziato a sognarlo anche io. È iniziato tutto così, un desiderio dopo l’altro.

C’è stato un momento in cui ti sei resa conto che avresti voluto completare le Seven Summits? Oppure l’obiettivo si è costruito da solo, una cima alla volta?
All’inizio non sapevo nemmeno che esistessero le Seven Summits. Poi ho capito che si trattava delle sette cime più alte di ogni continente e ho pensato che sarebbe stato davvero affascinante completarle, ma a quel punto ero già a più di metà strada.

Tutto questo mentre ancora lavoravi full-time per un’azienda. Hai mai pensato di diventare un’alpinista professionista?
Di fatto è accaduto, a partire dallo scorso anno e grazie a un po’ di visibilità che ho iniziato ad ottenere, insieme all’interesse di qualche sponsor. Devo dire che non mi dispiace questa vita, soprattutto quando si tratta di condividere la mia passione e il racconto delle mie avventure con altre persone appassionate ed avventurose come me. Mi diverto molto a tenere conferenze ed incontri.

Sei laureata in filosofia, cosa che mi ha molto incuriosita. Anche perché i tuoi primi studi erano quelli in amministrazione aziendale.
Quando ho finito le superiori mi sono buttata nel corso di laurea che credevo più utile in vista di un futuro lavoro. Eppure mi sono resa conto che imparare a memoria delle formule di certo non mi aiutava nella vita di tutti i giorni. Volevo aprire la mia mente, capire meglio le cose, pensare più in profondità, dibattere e seguire il filo logico di ciò che vivevo. Così ho scelto questa seconda laurea.

Ti ha aiutata, nelle tue spedizioni?
Sì e no. Le persone spesso pensano che quando sei in montagna hai tempo per lasciar andare la tua mente a grandi e insolute questioni filosofiche, cosa che in verità accade davvero di rado. Ma ricordo ad esempio che durante la mia prima spedizione sull’Everest, nel 2017, mi ero portata dietro due libri: La brevità della vita di Seneca e Le meditazioni di Marco Aurelio. Devo dire che mi hanno aiutata molto a gestire i rapporti interpersonali con gli altri alpinisti presenti. Rapporti che, a differenza delle grandi questioni filosofiche di cui ho detto prima, si amplificano alle alte quote, nei loro aspetti sia positivi che negativi. Ecco, Seneca e Marco Aurelio mi hanno aiutata a gestire me stessa, a riflettere sulle situazioni e sui miei stessi comportamenti. Da quel momento, in ogni spedizione, porto con me almeno un libro di filosofia, passando dalla Nausea di Sartre all’Apologia di Socrate di Senofonte.

Di tutte le tue spedizioni, ce n’è una in particolare che ricordi con maggiore piacere?
Sicuramente il mio non plus ultra è stato il K2. Non soltanto perché, fra tutte le altre vette che ho scalato, è quella dalle connotazioni alpinistiche più estreme, ma anche perché l’ho affrontata in un momento particolare. La stagione stava arrivando al termine e gran parte delle altre spedizioni avevano già lasciato il campo base. Affrontarla così, per ultima, mi ha dato la possibilità di crescere come alpinista e di sentirmi finalmente autonoma nel venire a patti con montagne che fino a poco tempo prima sembravano veramente inarrivabili. Sono state sensazioni molto belle, che altre cime non mi hanno dato. Perlomeno non nello stesso modo. E perlomeno non fino a questo momento.

A tal proposito, qual è il tuo prossimo obiettivo?
Come nel caso delle Seven Summits, ora che sono ad un buon punto, finire i quattordici Ottomila senza ossigeno supplementare potrebbe essere un ottimo proposito. Se la Cina lo permette, penso che proverò lo Shishapangma già in autunno. E poi rimarrà il Lhotse. Resto ancora molto appassionata di spedizioni polari, anche se negli ultimi due anni non ho avuto tempo di organizzarne ed imbastirne una. Mi piace molto quando la spedizione in sé diventa anche un modo per testare nuovi prodotti, tipo gli attacchi degli sci o il pad per dormire – ne stiamo sviluppando diversi insieme al mio principale sponsor, Georg Fischer AG. Insomma, cercherò di capire se riesco a progettare qualcosa anche in questo ambito, magari per il prossimo anno.

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