I pericoli della “death zone”

Un nome che incute paura al solo pensarlo, che rende bene l’idea del rischio che si corre in un ambiente ostile come quello degli ottomila. "Zona della morte" o "Death zone" sono parole che si sentono frequentemente quando si parla di alpinismo di alta quota. Ma che cosa stanno ad indicare esattamente? Ce lo hanno spiegato i nostri esperti.
La zona della morte o "death zone" è una zona di alta quota, dove la quantità di ossigeno presente non é più in grado di supportare la vita dell’uomo, creandogli problemi e minacciando la sua stessa sopravvivenza.
Di solito questo termine viene usato quando ci si riferisce di solito alle montagne che superano gli ottomila metri. Per esempio, sull’Everest, la "death zone" si trova dopo il campo 4, a 8000 metri di altezza.
Un tempo si credeva che l’uomo non potesse assolutamente sopravvivere in tali condizioni: da ciò il nome "zona della morte". Negli anni ottanta, però, Reinhold Messner dimostrò che era possibile scalare senza l’utilizzo di ossigeno supplementare anche a quell’altezza.
La resistenza del corpo umano a quelle condizioni, anche in un soggetto ben acclimatato, è però molto limitata nel tempo. Una permanenza di più giorni a quella quota manda inevitabilmente il corpo umano in gravi condizioni di ipossia e mette a rischio la sopravvivenza.
Ecco dei motivi per i quali gli alpinisti cercano di scendere il più in fretta possibile dalla cima.
Giancelso Agazzi
(Commissione medica CAI Bergamo)