In cordata

E se il meglio fosse già passato?

Il successo della riproposizione dei libri che raccontano storie dell’alpinismo di 50 o 70 anni fa induce a una riflessione. Solo nostalgia o gli odierni scalatori di punta non riescono ad appassionare?

A volte mi dico, sarà l’età. Quella cosa che cresce come un abnorme soufflé destinato a scoppiare, l’età che ti rincoglionisce e ti fa diventare insopportabilmente nostalgico. Poi mi guardo intorno, in libreria, e mi rassicuro: non sono solo io, la nostalgia, quel passato che  è sempre meglio del presente, ci assedia tutti. A scorrere il catalogo delle “novità” di tante case editrici, sembra che il meglio dell’alpinismo contemporaneo sia quello che è già successo. Come se tutti gli exploit dell’oggi, i personaggi che da blocchi o big wall popolano i social, non avessero bisogno di cantori. Come se la mitologia si fosse esaurita, una fonte ormai secca, e di mitico ci restassero solo i nomi dei morti.

Altrimenti non si spiegherebbe la riproposizione di tanti classici: nei Licheni di Priuli & Verlucca per esempio troviamo un Riccardo Cassin con il suo primo libro, Dove la parete strapiomba (prima edizione 1958) e il duo Casarotto, Goretta e Renato, con Una vita nelle montagne(prima edizione 1996); per gli Exploit di Corbaccio ri-appaiono fondamentali titoli di alpinisti che hanno dato il meglio di sé negli anni cinquanta, Kurt Diemberger con Danzare sulla corda, Maurice Herzog con il suo Annapurna, Ardito Desio e l’immarcescibile Conquista del K2, nonché l’avventura di Reinhold Messner sull’Everest solo del 1980. Persino nel bel catalogo di MonteRosa l’ultimo nato è un libro che ci riporta dritto negli anni Trenta, l’autobiografia alpinistica di Leni Riefenstahl, Tra nevi e ghiacci, tradotta per la prima volta da Paolo Ascenzi.

Uno sguardo rivolto al passato ce l’ha, nel suo ultimo giallo, persino Enrico Camanni, che dopo tante avventure contemporanee prende il suo personaggio feticcio, la guida alpina-investigatore Nanni Settembrini, e lo fa muovere nel 1993, quando era ancora giovane, e noi con lui. Il racconto è bello, la trama stringente, il soggetto originale: tra i ghiacci del Monte Bianco, Settembrini va in cerca di una persona scomparsa, ma non si tratta di un normale salvataggio perché il soggetto è un fuggitivo, anzi una fuggitiva che dà il titolo al romanzo (La bandita, Mondadori). Si tratta di un’infermiera che ha aggredito il suo primario, ricercata quindi per tentato omicidio, scomparsa nel nulla della grande montagna. C’è tanto alpinismo, nel racconto di Camanni, ma appunto un alpinismo di inizio anni Novanta, quando le nuove tecniche, i nuovi materiali, i nuovi linguaggi iniziavano appena a comparire, e tutto ci sembrava entusiasmante.

Operazione nostalgia? Conosco bene Camanni e so che tiene a bada il suo lato sentimentale, però il sospetto che anche lui pensi che “il meglio è alle nostre spalle” c’è. Le pagine sulla scalata della Cresta del Leone, così intense, ci riportano a un mondo in cui “fare” le vie classiche, con tempi e modalità umani, rappresentava un valore. E forse è proprio questo il dato più interessante, che emerge dal giallo di Camanni come dalle biografie e imprese del passato riproposte oggi in libreria: l’umanizzazione dell’alpinismo. Una cosa di cui abbiamo estremo bisogno, in tempi in cui tecnica, materiali, sponsor, competizioni e cronometri sembrano farla da padroni.

Per quanto riguarda poi i cantori del mito, sono convinto che nonostante tutto le storie e le leggende non sono mai morte, semplicemente si rinnovano e stratificano. Cambiano i mezzi espressivi, lo smartphone si sostituisce alla carta, ma il nostro bisogno di eroi e saghe da raccontare rimane identico.
Fra trenta, cinquant’anni, ci sarà qualcuno che dirà: “Ricordi i bei tempi del 9b?”. Adam Ondra sarà raccontato come un Walter Bonatti. La nostalgia farà di nuovo capolino.

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