
Belgio, Spagna, Irlanda, Patagonia, Groenlandia. Bisogna mescolare questi luoghi, e aggiungerne degli altri, per disegnare il ritratto di uno degli alpinisti più sorprendenti di oggi. Sean (o Seán) Villanueva O’Driscoll, 44 anni, si è fatto notare nel 2006 quando ha ripetuto con tre amici Riders on the Storm, una delle vie più dure delle Torri del Paine, in Cile.
A farlo diventare uno degli alpinisti più famosi del mondo sono state molte altre ascensioni e due Piolets d’Or. Quello del 2011 gli è stato assegnato per una spedizione in Groenlandia, quando insieme a Ben Ditto e ai fratelli Nicolas e Olivier Favresse ha aperto The Devil’s Brew, una via di 850 metri sul Seagull Wall, sulla costa Ovest. Il team ha raggiunto la zona in barca a vela.
Il Piolet d’Or 2022 è stato assegnato a Villanueva O’Driscoll per un’impresa solitaria. La traversata delle sette cime del massiccio del Fitzroy, la vetta-simbolo della Patagonia argentina. Un itinerario che Sean ha battezzato The Moonwalk Traverse, e che era stato percorso nel 2014, in cordata e in senso inverso, dagli statunitensi Tommy Caldwell e Alex Honnold.
La Groenlandia, con la Patagonia, è sempre al centro dei sogni di Sean. Nell’estate del 2024, ha tracciato con Julia Cassou, Sean Warren e Pete Whittaker una difficilissima via sul Mirror Wall, sulla costa Est dell’isola-continente. Dopo aver salito la parete in 11 giorni, con difficoltà fino al 7c+, i quattro hanno impiegato altri 6 giorni per scendere, liberando i tratti prima saliti in artificiale. Le difficoltà hanno raggiunto l’8b.
L’elenco delle ascensioni non basta a capire la personalità di Sean Villanueva O’Driscoll. Nel 2020, mentre iniziavano i lockdown causati dal Covid-19, ha scelto di restare in Patagonia, vivendo in una roulotte e mantenendo i rapporti con la piccola comunità di El Chaltén.
Nelle sue spedizioni, Sean e i compagni portano degli strumenti musicali (lui suona il flauto). La musica in parete serve a godersi l’esperienza e a mantenere la motivazione. “Senza la musica, quando il tempo è brutto, potrei solo starmene lì ad aspettare nel portaledge, perdendo motivazione ed energia”, spiega.
“Suonare ti ricorda di vivere l’esperienza nella sua interezza, di goderti il momento, e che il prossimo tiro non è la cosa più importante. Poi, quando torna il bel tempo, ti fa sentire vivo”. La chiacchierata che segue è stata realizzata a Trento, dove Sean era tra i giurati dell’edizione numero 73 del Film Festival.
Nel programma del Festival vieni presentato come belga, hai un nome celtico e un cognome metà spagnolo e metà irlandese. Da dove vieni Sean? E dove vivi?
Mio padre è spagnolo, mia madre irlandese. Ho queste due nazionalità, ma sono cresciuto in Belgio. Vivo “on the road”, sulla strada, dove mi porta il vento.
Altra domanda banale, cosa fai nella vita? Sei una guida alpina?
No, vivo del mio alpinismo. Serate, articoli, partecipazioni a festival come qui a Trento. E poi, naturalmente, vivo e viaggio grazie agli sponsor. Il principale è Patagonia, poi ci sono Petzl, Scarpa, Lyofood (cibo liofilizzato) e Totem, che produce friends.
Come ti sei avvicinato all’arrampicata?
Come tanti ragazzi, in una palestra indoor di Bruxelles. Lì ho conosciuto Nico (Nicolas) Favresse, che da allora è il mio compagno di cordata preferito. Dai 16-17 anni abbiamo iniziato a viaggiare in autostop verso il Sud della Francia e la Spagna, per arrampicare in falesia.
Qual è stata la vostra prima esperienza su pareti più grandi?
Nel 2003, nel Rätikon, in Svizzera. Un vero e proprio big wall, dove è andato tutto storto. Abbiamo fatto lunghi voli, è arrivato il temporale, siamo scesi di notte e si è bloccata una doppia. In Irlanda diciamo “swim or drown”, “nuota o annega”, e quella è stata una grande lezione. Poi è arrivata Yosemite, e dopo la Patagonia.
Ci arriveremo, ma intanto dimmi dell’Irlanda. Per gli italiani è una meta turistica famosa, ma per i climber la conoscono meno della Scozia o del Galles.
L’Irlanda è magnifica per arrampicare. C’è tantissima roccia, soprattutto all’Ovest, sulla terraferma e sulle isole minori come le Aran. Si può scegliere tra calcare, basalto e granito. Si arrampica in stile trad, come nel Regno Unito. Vado in Irlanda un paio di volte all’anno, a trovare la famiglia, e ogni volta vado anche a scalare.
Dopo il Rätikon hai scoperto la Patagonia, e la tua vita è cambiata.
Nel 2005 sono andato a Yosemite, ed è stata una grande esperienza. Nel 2006, insieme a Nico e ad altri due amici ho ripetuto Riders on the Storm alla Torre Centrale del Paine, una via di 1300 metri aperta da Kurt Albert, Wolfgang Güllich e compagni. Un capolavoro.
Una salita che ti ha cambiato la vita?
Sì, anche perché è stata la mia prima esperienza in ambiente alpino. Lì ho messo per la prima volta i ramponi. Ho ripetuto quella via nel 2024, dopo tante altre esperienze in Patagonia, volevo confrontarmi con me stesso, diciotto anni prima.
Cosa hai pensato del giovane Sean?
Che era bravo, e che ha imparato in fretta. La seconda volta ero meno intimidito dall’ambiente, ma anche la prima abbiamo scalato bene. L’errore più serio del 2006 è stato non ancorare anche in basso la portaledge. La notte il vento ci ha fatto ballare come matti.
Dalle falesie europee sei passato alla Patagonia e a Yosemite. Ma conosci le Alpi? Quali massicci preferisci?
Mi piace arrampicare su granito, e quello del Monte Bianco è magnifico. Il Grand Capucin è una montagna straordinaria, e lo stesso vale per il Clocher du Portalet, sul versante svizzero.
Quante volte sei stato in Patagonia? E qual è stata la tua esperienza più bella?
Ci sono stato otto o nove volte, l’esperienza più bella è stata la traversata solitaria del massiccio del Fitz Roy. E’ stato un sogno, un viaggio magico, che mi ha reso famoso e mi ha aiutato a trovare degli sponsor.
A proposito di sponsor. Esistono alpinisti di punta che si sentono vincolati, perché devono presentare dei progetti di ascensione dettagliati, e se poi non riescono temono conseguenze negative.
Per me non è così. Quando sento la chiamata, e mi viene voglia di andare, avverto gli sponsor, mi organizzo e parto. Nessuno di loro mi ha mai chiesto dei progetti dettagliati, né ha limitato la mia libertà.
Tu arrampichi in montagna e in falesia, in zone con regole tradizionali e in altre dove si usano gli spit. Ci sono limiti da non superare?
Ogni zona ha le sue regole e bisogna rispettarle. Praticare l’alpinismo significa ampliare le proprie esperienze, e per farlo bisogna superare difficoltà sempre maggiori in bello stile e in velocità. Per quanto riguarda l’etica, c’è una tendenza a rendere l’alpinismo sempre più sterilizzato e sicuro. Non mi piace.
C’è una zona dove l’etica è severa e che ti attira più delle altre?
Sì, le torri di arenaria lungo l’Elba, tra la Germania e la Repubblica Ceca. Lì si arrampica da più di un secolo, con regole incredibilmente severe. Per proteggersi non sono vietati solo i chiodi, ma anche dadi e friend, si possono incastrare nelle fessure solo dei cordini con nodi. In una fessura con i bordi paralleli non ti puoi proteggere in nessun modo. Ne ho tentata una, e dopo qualche metro sono sceso perché non mi sentivo sicuro.
Per finire una domanda sul Belgio. Sulle Dolomiti si ricorda Alberto I, il re-alpinista di oltre un secolo fa. Quanto contano oggi l’arrampicata e l’alpinismo a Bruxelles e dintorni?
In Belgio il mondo dell’arrampicata è entusiasta e compatto, produce nuovi talenti, e può contare su belle falesie come Freyr. Sai che la prima palestra indoor privata del mondo è nata a Bruxelles? La storia del re alpinista, e che è caduto in parete, mi piace. E’ l’unico caso al mondo.