Curiosità

La leggenda della manica

Illustrazione di Nevio De Luca

La terza leggenda  proveniente dall’alta Valcamonica. La storia di una contadinella paurosa che riesce a sfuggire alle fin troppo premurose attenzioni di un ardito cavaliere.

(proposta da Antonio Stefanini)

II teatro della leggenda che narrerò non si localizzi, per carità, nel Canale della Manica, ma in Val di Corteno, sulla strada Valeriana, a circa cento passi ad oriente dei primi cascinali di Dambino, ove scendendo ben incavato nel monte con dirupi aspri, sbocca un canalone – in dialetto «Valé» – detto della Manica.

Il perché di questa denominazione si saprà alla fine della leggenda. Intanto, io l’incomincio.

In un pomeriggio estivo, tutto sole e arietta, una contadinella forse diciottenne, pascolava il proprio gregge nella radura in fondo al canalone. Vispa e snella come una capretta, vestiva un ben attillato turchino con alle reni cento pieghe, un candido grembiule di lino, un variopinto «apis» al collo, il capo nudo con una bella aureola di spadine d’argento.

E che viso da Madonnina! In esso brillavano due occhietti mobilissimi, celesti, che essa, di quando in quando, fissava a destra e a sinistra della strada come se temesse l’arrivo di qualcuno.

In piedi, sopra un dossetto, faceva la calza e cantava. Ad ogni rumore strano sospendeva il lavoro e si assorbiva in profonda attenzione. Pareva pronta a fuggire a gambe levate.

E aveva ragione la poverina di non essere tranquilla! A quei tempi le ragazze erano sempre in pericolo d’essere trafugate. Tutti i giorni ne scomparivano e di esse non si sapeva più nulla.

Venivano rapite da bravi o “büli”, armati da capo a piedi, a servizio di terribili signorotti che abitavano in palazzi misteriosi e pieni di trabocchetti.

La giovinetta, dopo un po’ di tempo, stanca della continua tensione nervosa, si sedette sull’erba all’ombra d’un ontano, appoggiandosi ad un masso con la schiena. Senza avvedersene e con lo sguardo rivolto alle sue buone pecorelle, s’appisolò.

Dormiva forse da cinque minuti, quando uno scalpitio di cavallo la svegliò, facendola balzare in piedi. Con gli occhi sbarrati guardò verso il ponticello. Un bel cavallo bianco, montato da un giovinotto, avanzava al trotto dal ponte.

La giovinetta si sentì il sangue dei piedi salire alla testa. Fece per fuggire, ma le sue gambe come paralizzate, non potevano muovere un passo. Il cavaliere, chiuso in una lucente corazza e con spada e pugnale pendenti ai fianchi, ornato d’un lucente cappello piumato, appena vide la ragazza, cominciò a sorriderle con due occhi che sembravano di fuoco.

E quando le fu vicino si mise a dirle tante paroline dolci, facendole proposte poco a modo. Visto che la giovinetta non riusciva a pronunciare parola per lo spavento, egli tentò d’incoraggiarla con carezze ed altri sorrisi più convenienti.

Adirato per non essere corrisposto e sentendo avanzare dei passi, toccò la contadinella in una manica, soggiungendo: «Arrivederci questa sera al Belvedere!». Quindi spronato il cavallo, con un sogghigno, sparì al trotto dietro la svolta della strada.

La poveretta rimase come un sasso tra i sassi e, riavutasi alquanto, si mise a correre su e giù come una pazza, piangendo ad alta voce. Ebbe speranza nei passi che aveva udito, ma non comparve alcuno. Sapeva ormai che avrebbe dovuto obbedire all’ordine del cavaliere che di certo era un «bülo». Con occhiate ed incantesimi questa gentaglia riusciva a raggiungere ogni suo scopo su persone ed animali.

Si sedette quindi sopra un tronco di larice disteso lungo il ciglio della strada e continuò a singhiozzare con la testa tra le mani, pensando alla sua triste sorte. Invocò i genitori, i parenti tutti, Dio, la Vergine, i Santi e poi si mise a recitare il Rosario con gran devozione.

Non si curò più del gregge che s’era sbandato e nemmeno della calza, caduta sulla strada, mentre il gomitolo era precipitato nel torrente.

Terminata la preghiera, la contadinella si sentì un po’ di calma nel cuore e pensò che il cavaliere si fosse dimenticato di lei. Sospirando profondamente, come per acconsentire al suo desiderio, si levò in piedi e, asciugatasi gli occhi con un lembo del grembiule, chiamò la pecora nera con al collo il campanaccio di richiamo.

Stava salendo per la radura, attaccandosi a ramoscelli d’ontano verde onde non cadere, quando, proprio mentre non se l’aspettava, si sentì tirare per la manica toccata. Gettò un urlo di spavento e con quanta voce aveva in gola si mise a chiamare ed a gridare soccorso.

Una donna dei Tonte, alle Scale, udì e, accorrendo premurosa su un greppo da dove poteva vedere la giovinetta, le chiese: «Ma che hai?».

«M’hanno toccato!».
«Dove t’hanno toccata?».
«Nella manica!».
«Taglia la manica!»

La contadinella, senza perder tempo, dato di piglio alle forbici appese ai legacci del grembiule, tagliò la manica che sparve immediatamente verso l’Aprica. Piangendo di gioia per essere riuscita a sfuggire al maleficio e ringraziando il Cielo, raccolse le sue pecore, svelta svelta… e la giovane tornò a Galleno e non fu mai più vista andar sola.

La manica apparsa improvvisamente sul piatto del bülo che pranzava al Belvedere, fece questi andare su tutte le furie, tanto che per sfogarsi, con la spada, spezzò le stoviglie che erano sul tavolo.

da "Leggende e tradizioni della Val di Corteno da Edolo all’Aprica " di Giacomo Bianchi (1905-1996) edito da La Compagnia della Stampa 2005 – Roccafranca BS.

Illustrazione del pittore Nevio De Luca

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