Piolet d’Or 2024: Béguin, Gribi e Monard raccontano la loro impresa sulla Nord del Flat Top
Cronaca di un’ascensione visionaria, e una discesa avventurosa, lungo le pareti di una delle cime più remote dell’Himalaya indiano. Il tutto in rigoroso stile alpino
“Domani è un altro giorno”. Ad esclamare questa celebre frase non è stata solamente Rossella O’Hara nel finale di Via col vento ma anche gli svizzeri Hugo Béguin, Matthias Gribi e Nathan Monard durante l’altrettanto finale tratto della nuova via da loro aperta, fra il 2 e il 6 ottobre 2023, sulla parete nord del Flat Top, cima di 6.100 metri nell’Himalaya indiano, più precisamente nel Brammah. Un’ascensione per la quale nei giorni scorsi sono stati premiati a San Martino di Castrozza con il Piolet d’Or.
«Il nome dato alla via, Tomorrow is another day (“Domani è un altro giorno” per l’appunto, NdR) è nato quasi per scherzo, – racconta Hugo Béguin – anche se in quei momenti non c’era molto su cui scherzare. Sapevamo di avere davanti a noi una cresta infinita e di dover scendere da un altro itinerario mai scalato prima, lungo la parete ovest. Recitare queste cinque parole come una sorta di mantra è stato quasi salvifico, così come poterci ritrovare di nuovo al campo base il giorno seguente è stata una faticaccia».
La fatica sembra d’altronde quasi scolpita fra le cime granitiche del Kishtwar, nell’Himalaya indiano, luogo in cui i tre si trovavano. Vette che sorgono in un territorio conteso: quello di Jammu e Kashmir, una regione che per decenni è stata teatro di conflitti tra forze armate indiane, militanti e separatisti. La situazione indo-pakistana è rimasta praticamente irrisolta dal 1947, mentre, d’altra parte, gli anni Settanta e Ottanta hanno visto l’alpinismo toccare, in questa regione, il suo apice. Negli ultimi decenni tuttavia il dilagare delle insurrezioni ha reso l’area inaccessibile per la maggior parte degli alpinisti stranieri, soprattutto per quelli provenienti dall’ovest. Di recente, però, la situazione parrebbe migliorata e molte delle splendide vette ancora inviolate di quest’area sono tornate accessibili.
Ad approfittarne, lo scorso anno, proprio Béguin, Gribi e Monard, inseguendo il loro sogno di aprire una nuova via lungo la parete nord del Flat Top, montagna che di per sé aveva visto solo un’altra ascensione di successo: quella ad opera di un team di alpinisti anglosassoni nel 1980, lungo la cresta est. Nel 2018, in realtà, anche l’inglese Timothy Elson e il neozelandese Richard Measures riuscirono a scalare circa 700 metri lungo lo sperone nord: un tentativo che alla fine fu interrotto dal maltempo, così come quello successivo che i due cercarono di portare avanti, durante la stessa spedizione, sulla cresta est.
Il racconto dell’ascensione
«La nostra avventura quasi disperata sul Flat Top – spiega Matthias Gribi – è cominciata già durante i tre giorni di cammino per raggiungere il campo base. Lungo il tragitto, ma anche nella permanenza al campo, abbiamo dovuto cercare di reperire informazioni su questa montagna. Possedevamo solamente una foto della parete, il che, nonostante i sogni capaci di portarci fin lì, insinuò in noi parecchi dubbi sulla fattibilità dell’impresa». Ad accrescere le incertezze fu senz’altro complice, in un primo momento, la meteo avversa dei primi giorni, quando un timido approccio alla parete si risolse in un nulla di fatto a causa di un’abbondante nevicata.
Fu allora che iniziò per il team un’estenuante attesa al campo base di circa un’altra settimana. «Non eravamo convinti di farcela dopo quella prima batosta, – prosegue Matthias – ma ritentare un’ultima volta piuttosto che tornarcene subito a casa ci sembrava in fin dei conti la scelta migliore». Soprattutto dopo aver previsto una meravigliosa finestra di bel tempo della durata di quattro giorni.
«Le condizioni meteorologiche perfette – spiega Nathan Monard – e spalmate su un lasso di tempo relativamente lungo ci fecero ben sperare, ma dal campo base a quello avanzato impiegammo comunque una giornata intera di cammino, cosa che ci sembrò inizialmente un grande spreco».
Fu nella mattinata del 3 ottobre, dopo una notte passata al campo avanzato, che Hugo, Matthias e Nathan iniziarono finalmente a seguire una linea abbastanza evidente che si dipanava al centro della parete nord, svoltando a destra dopo 600 metri per raggiungerne la cresta.
«La traversata in salita, che abbiamo affrontato il secondo giorno, – continua Nathan – si è rivelata il tratto più difficile. Al di sopra, un’arrampicata particolarmente tecnica e spudoratamente lunghissima sulla cresta ci ha condotti alla vetta alle 19 del 6 ottobre, ma la nostra avventura non era ancora finita».
Tempo di fumare una sigaretta ciascuno («ma niente inno al tabagismo, precisa Matthias, si trattava di sigarette all’eucalipto che avevamo portato con noi nell’eventualità che quel tanto agognato momento arrivasse sul serio»), e i tre sono scesi lungo l’ancora inesplorata parete ovest della montagna, per un totale di quindici lunghe doppie, arrivando infine a bivaccare sul ghiacciaio posto ad ovest rispetto alla loro via d’accesso. «Il giorno successivo perciò – spiega Hugo – abbiamo attraversato la cresta che si collega al Brammah I, calandoci sull’altro versante e raggiungendo finalmente il campo avanzato». Sembra quasi di sentire l’eco di quel “domani è un altro giorno” pronunciato ad ogni passo, ad ogni metro.
E un’ultima domanda sorge spontanea, al termine del loro racconto di questa linea elegante e tecnicamente difficile, tracciata con visione e coraggio, in perfetto stile alpino: viene da chiedersi, data la giovane età del team (25 e 28 anni), chi mai li abbia ispirati ad un alpinismo tanto puro ed intenso.
«Abbiamo forse due punti di riferimento su tutti, ovvero Paul Ramsden e Walter Bonatti», risponde Matthias. Il britannico alpinista non professionista capace di aggiudicarsi ben cinque Piolets d’Or durante la sua lunga vita trascorsa fra le montagne e il fuoriclasse italiano, altrettanto coraggioso nel rinunciare all’alpinismo in un’età dove oggi invece tutto comincia: a 35 anni, dopo la straordinaria apertura di una nuova via, in solitaria invernale, lungo la parete nord del Cervino. Due visionari, dei quali lo stile dei tre svizzeri sembra rappresentare davvero l’eredità migliore.