A tu per tu con Anna Tybor, dalle gare di skialp alle discese con gli sci dagli 8000
La scialpinista polacca viene dal mondo delle gare ed è proiettata verso le Olimpiadi, ma anche verso la discesa con gli sci dal K2 dopo essere già riuscita nell’impresa su Manaslu e Broad Peak. Senza scendere a compromessi sul modo di andare in montagna
Anna Tybor è una scialpinista poliedrica, capace di difendersi nelle gare più veloci ma anche di mettersi alla prova con spedizioni sugli 8000, ovviamente da scendere con gli sci e salendo sempre senza ossigeno e senza portatori, nel modo più autonomo possibile, anche quando questo vuol dire rinunciare alla cima. E’ arrivata in vetta al Manaslu e al Broad Peak, scendendo con gli sci, naturalmente. La scorsa estate ha tentato, invano, di raggiungere le vette di Dhaulagiri e Nanga Parbat. Oggi però, l’atleta supportata da Millet, sogna le Olimpiadi del 2026.
Vieni dal mondo delle gare e ancora oggi sei in nazionale: in che modo questo ti ha influenzato?
Le gare sono sicuramente un bell’allenamento per prepararmi agli 8000. Competendo su percorsi lunghi, come quelli della Pierra Menta o del Mezzalama, lo sforzo a cui si sottopone il corpo è simile a quello che si prova ad alta quota. Ovviamente non è la stessa cosa, ma muovendosi in velocità e a battiti alti per un po’ di tempo i muscoli si trovano a lavorare senza ossigeno, una situazione che si verifica quando l’aria è rarefatta, pur andando a velocità molto minori.
Ma non è solo questione di allenamento: a me gareggiare piace molto, così come amo essere nella squadra nazionale e rappresentare il mio Paese. Tuttavia, ormai non vado più forte come anni fa, e le gare sono cambiate: le distanze si sono accorciate e conta meno la resistenza, per questo smetterò presto di mettermi alla prova sui percorsi corti, e parteciperò solo alle gare storiche, dedicandomi del tutto a sci ripido e alta montagna. Negli sprint di oggi le discese sono battute e non tecniche, mentre per me il vero scialpinismo deve comprendere la discesa come parte integrante del percorso.
Come ultimo atto mi sto preparando per le qualificazioni alle Olimpiadi: per questo motivo quest’anno ho deciso di rinunciare ad andare in Nepal o in Pakistan. Purtroppo, non si possono fare bene entrambe le cose, è un tipo di allenamento diverso. Mi dispiace molto ma sento che per le Olimpiadi è la mia ultima chiamata e voglio provarci con il massimo allenamento possibile.
La tua ultima spedizione è stata quella a Dhaulagiri e Nanga Parbat con Tom Lafaille: come è andata?
È stata senza dubbio una spedizione tosta: tre mesi fuori casa, in alta quota, non sono leggerissimi da gestire. Non abbiamo salito nessuna delle due cime che erano in programma, e questo ha reso il tutto ancora più duro dal punto di vista mentale. Abbiamo trovato i soldi, gli sponsor, ci siamo preparati e allenati e poi non siamo riusciti a raggiungere gli obiettivi. Tuttavia non direi che la spedizione è andata male: per me non conta solo la cima, già il fatto che entrambi siamo tornati a casa è una buona cosa. Per me è sempre esperienza, ho imparato tante cose su come fare meglio e sono contenta che siamo andati.
Rinunciare è stata molto dura, soprattutto sul Nanga Parbat, dove siamo arrivati a 70 metri dalla cima. Le condizioni sono cambiate improvvisamente, eravamo immersi nella nebbia e non saremmo neanche riusciti a capire se fossimo in vetta o meno. Le spedizioni commerciali quel giorno hanno fatto la vetta perché sono partite prima, cosa per noi impossibile.
Quando siamo arrivati a campo 3, trasportando 23 chili di zaino, abbiamo dovuto sistemare tutta l’attrezzatura, allestire la piazzola per la tenda, preparare l’acqua e il cibo, mentre chi ha gli sherpa si trova già tutto fatto. Ma questo non è il modo in cui io voglio fare alpinismo, è tutta un’altra cosa. Non ho niente contro chi fa questo tipo di spedizione, però mi dispiace quando leggo i commenti della gente che fa di tutta l’erba un fascio e polemizza sul fatto che noi non siamo arrivati in vetta e altri sì.
Quale è la motivazione che ti spinge a ricercare le discese più estreme sugli 8000?
Lo scialpinismo è parte di me da sempre: anche mio papà faceva le gare, e io non potrei vivere senza questo sport. Da quando inizia a nevicare fino alle ultime chiazze. Per questo per me è naturale pensare di salire una montagna e poi non voler scendere a piedi. Sciare gli 8000 è il mio sogno ed è la cosa in cui mi sento più ispirata: non è come sciare a Livigno o a Chamonix, in cui si fa tutto (quasi) in giornata. In spedizione si è fuori dal mondo, fuori da tutta la vita normale: siamo solo io, la montagna e i miei amici che hanno lo stesso scopo. L’atmosfera è completamente diversa, non c’è più lo spirito di competizione perché ognuno gareggia con sé stesso.
Sugli 8000 si può fare tutto insieme: andare in montagna, scalare e sciare. Certo è faticoso, c’è sempre l’incertezza sul fatto di arrivare in cima e l’adrenalina perché non si sa mai cosa succederà, ma è questo che mi dà la motivazione.
Come scegli i compagni per una spedizione così estrema?
Non è facile trovare le persone con cui andare a fare una spedizione del genere, anzi direi che è la cosa più difficile dopo il trovare i finanziamenti. Non contano solo l’esperienza e le capacità ma bisogna anche essere in sintonia e andare d’accordo su tante cose, dopotutto dobbiamo stare nella stessa tenda per tre mesi. Essendo una donna è ancora più difficile perché si tratta di un ambiente ancora molto molto maschile. Noi donne non contiamo ancora, ci guardano come quelle più deboli e cercando compagni mi capita di sentire: “Se andiamo con una donna non siamo sicuri di arrivare in cima”. Io invece ho constatato che le donne sono spesso più forti mentalmente, più in grado di sopportare il dolore e le situazioni scomode. La prima cosa che conta in questo tipo di spedizione è la testa: il corpo è comunque sempre in sofferenza, ed è solo la mente che ti porta in cima.
Inoltre, sono molto pochi gli alpinisti capaci di unire l’utilizzo degli sci e l’altissima quota senza l’utilizzo di ossigeno supplementare, quindi non c’è moltissima scelta. Soprattutto per cime difficili, non me la sento di andare con qualcuno che non scende con gli sci e dover quindi affrontare la discesa da sola. Adesso sto cercando qualcuno che magari vada con l’ossigeno, mentre io andrei senza, per allargare un po’ il campo e sperare di trovare la persona adatta.
Che progetti hai per il futuro?
Per ora all’orizzonte c’è la qualifica per le Olimpiadi di febbraio 2026. Più in là c’è il mio grande sogno, scendere il K2 con gli sci. Questa è la montagna che ho sempre voluto scalare: tutti gli altri 8000 li ho saliti per prepararmi al K2, per acquisire esperienza su come reagisce il mio corpo all’alta quota.
È un progetto difficile per cui forse adesso non sono ancora pronta, probabilmente prima farò qualche altro 8000 più facile e basso come i Gasherbrum I e II per prepararmi meglio. Dipende anche dalle Olimpiadi, ma nel 2026 sicuramente tornerò in Himalaya, e sarà un anno di fuoco.
Adesso sto pensando soprattutto a trovare gli sponsor per potermi allenare con la testa completamente libera: in Polonia è tutto più complicato perché non c’è il supporto dei corpi sportivi militari come in Italia. Per le spedizioni gli sponsor si trovano perché sono occasioni appariscenti, ma avere un contratto regolare è tutta un’altra cosa. Io sono architetta, l’anno scorso ho lavorato tutto l’anno prima della spedizione ma è difficile, specialmente se ci si mettono anche le gare. È dura avere la testa sgombra per allenarsi e dover arrivare a pagare l’affitto a fine mese. Ma io sono ancora più dura, quindi dovrei assolutamente farcela.