AlpinismoGente di montagna

A tu per tu con Symon Welfringer: l’ignoto, l’avventura, la musica

Il fortissimo alpinista francese del team Millet racconta le sue ultime imprese, condotte in uno stile che ricorda il passato ma che è pieno di futuro. Multidisciplinarietà è la parola d’ordine

È rientrato poco tempo fa dalla Groenlandia, dove con Matteo Della Bordella, Sylvan Schüpbach e Alex Gammeter ha pagaiato fra calotte di ghiaccio per raggiungere l’obiettivo della spedizione: i 1.200 metri della parete ovest del Drøneren e l’apertura della nuova via Odyssea Borealis, realizzata basandosi solamente su pochissime informazioni e una fotografia. Aneddoto che ricorda un po’ l’impresa di Cassin, Tizzoni ed Esposito sullo Sperone Walker alle Grandes Jorasses, salito dai tre armati soltanto di una cartolina e delle indicazioni fornite loro dal gestore del rifugio Torino. L’ignoto, per l’alpinismo del 1938, era pane quotidiano.

Nel 2024, l’ignoto va cercato. Ed è quello che fa, nel suo modo di approcciarsi alla montagna e all’avventura generalmente intesa, proprio Symon Welfringer, alpinista del Team Millet, che abbiamo incontrato nei giorni scorsi in occasione della sua serata a MeseMontagna: rassegna capace di portare ogni anno nella Valle dei Laghi, in Trentino, alcuni dei più importanti alpinisti ed esploratori internazionali.

Iniziamo dal luogo in cui ci troviamo: Trentino, territorio dolomitico. Dolomiti che nella tua carriera hai però frequentato poco (nel 2019, ripetendo la via Colonne d’Ercole in Civetta). Vorresti tornare?

Amo le Dolomiti ma non ho mai trovato il tempo per esplorarle con continuità. Tre anni fa ero partito in bici dalla Francia per tentare di ripetere la via Bellavista alla Cima Ovest di Lavaredo: quando siamo arrivati, eravamo completamente sfiniti e dunque non la provammo nemmeno. In futuro però mi piacerebbe pormi altri obiettivi in queste zone.

Il tuo 2024 è iniziato invece sugli sci. Prima la Pierra Menta insieme a Morgan Salmon, poi la super discesa in sci ripido dalla parete nord dell’Epéna, con Xavier Cailhol. Un exploit dove bici, scialpinismo, alpinismo e sci ripido si combinavano in maniera perfetta. E che per questo ricorda un po’ le imprese di un tempo. Credi ci sia un revival di questo tipo di avventure?

Sicuramente, in termini di scoperta, le più grandi cose in montagna sono già state fatte: aprire nuove vie non è più qualcosa di così avventuroso, proprio perché la maggior parte delle grandi linee possibili è già stata percorsa. La mia idea attuale di performance è quella di combinare diverse attività, trovando un modo di approcciare la montagna con maggiore impegno e sfida. E sì, sta diventando un revival o un trend, ma richiede una buona dose di capacità tecniche e di resistenza in discipline differenti.

Rispetto al passato, penso che se una volta l’intenzione era quella di passare più tempo possibile in montagna, oggi vale quasi il contrario. Quando la permanenza in ambiente è estremamente breve significa che sei performante. Mentre un tempo le ore passate in montagna, anche in bivacchi notturni, erano i momenti migliori, adesso l’obiettivo è accorciare i tempi, ridurre le permanenze: una tendenza che espone al rischio di perdere un po’ lo spirito d’avventura. L’idea di combinare differenti attività mi affascina perché scongiura proprio questo rischio: l’avventura viene intesa globalmente e non solo come la conquista alpinistica di una vetta o di un itinerario blasonato. Devi essere forte in diversi campi e questo mi affascina.

A maggio hai realizzato Le cavalier sans tête, una linea sull’inviolata parete ovest del monte Hungchi, in Himalaya, aperta con Charles Dubouloz. È stata un’avventura epica ma anche complessa ed intensa: puoi raccontarci il momento migliore e quello peggiore che hai vissuto in quel frangente?

È un po’ scontato, ma il momento migliore è stato arrivare in cima. Anche se, mentre ero lì, non ho provato una gioia strabordante, perché siamo giunti in cattive condizioni meteo e pensavamo che la discesa sarebbe stata molto tosta. Si tratta di quel genere di bei momenti dei quali hai percezione soltanto con il senno di poi. D’altro canto, è stata una spedizione particolarmente difficile, perché mi sono sentito male proprio a metà, durante l’acclimatamento, e dunque il mio timore era quello di collezionare un altro fallimento in alta quota, come mi è accaduto diverse volte negli scorsi anni.

Ero partito da casa contando molto su questa spedizione e il fatto di essermi sentito male così presto mi ha molto innervosito. Poi ho potuto recuperare le forze riposandomi al campo base, così da poter portare avanti almeno un tentativo. Durante la salita ero comunque al 50% delle mie capacità fisiche, perciò è stata davvero dura. Anche scendere è stato difficile perché avevamo scelto, anche per la discesa, un itinerario sconosciuto sull’altro versante. Direi che in generale è stata un’avventura impegnativa: ma poi ha funzionato, siamo stati anche molto fortunati e questo ha reso l’esperienza davvero unica.

Mi colpisce come tanti momenti brutti riescano comunque a risolversi in una spedizione esaltante: sembra quasi una contraddizione.

Esatto. Questo genere di cose è pura sofferenza, solo sofferenza, sofferenza tutto il tempo. Ma se mi dicessero di farlo ancora non esiterei un momento.

Un modo felice di soffrire, insomma

Penso che un certo tipo di alpinismo che porto avanti sia esattamente questo. E mi piace. È una cosa strana da dire, ma più soffri più sei felice e soddisfatto, non solo una volta che raggiungi l’obiettivo ma proprio durante il percorso che stai portando avanti per farlo.

Perché avete chiamato la linea Le cavalier sans tête?

È una canzone di Damien Saez. In francese, “sans tête” significa “senza testa” ma può anche voler dire qualcosa di simile all’italiano “avere la testa dura”, ovvero essere testardi. Se siamo stati capaci di aprire questa linea è perché eravamo abbastanza testardi e motivati da completarla, nonostante le grandi fatiche. Da questa avventura  è nato anche un film, targato Millet, di 40 minuti The headless horseman.

Hai vinto il Piolet d’Or nel 2021, lo stesso anno in cui il premio alla carriera fu consegnato a Catherine Destivelle, tua connazionale. C’è un alpinista francese che ti ha influenzato agli esordi, quando iniziavi ad esplorare questo mondo?

Il primo alpinista ad ispirarmi è stato Jean-Christophe Lafaille. È un po’ tragico, ma quand’ero molto piccolo avevo appreso dalla televisione che questa guida francese si trovava dispersa sul Makalu. Io mi ero persuaso che fosse ancora vivo e mi dicevo “Okay, si sta nascondendo in montagna”. Ero piccolo e in quei giorni mi immaginavo storie di yeti, scenari fantasiosi ed inverosimili con lui come protagonista, senza mai credere che fosse morto davvero. Per me non c’era alcun motivo di morire in montagna, non capivo ancora questa cosa. È stato proprio ponendomi delle domande su quella vicenda che ho scoperto meglio chi era e sono entrato più in profondità nel mondo dell’alpinismo, innamorandomene. Ma devo dire che sì: fu Lafaille la mia prima vera ispirazione.

Tornando al Piolet d’Or, l’hai vinto praticamente grazie ad un piano B. Tu e Pierrick Fine dovevate andare in Nepal ma a causa del Covid avete optato per il Pakistan e, in particolare, avete messo nel vostro mirino l’ancora vergine parete sud del Sani Pakkush. Prima hai parlato di testardaggine, ma che rapporto hai con i piani B, sia come alpinista che come persona? Sei più testardo o più flessibile?

Al di là della testardaggine, di certo in alpinismo c’è bisogno di una buona dose di flessibilità. Quando inizi a fare le spedizioni capisci molto presto come il piano A sia una chimera: il 90% delle volte non riesci a realizzarlo. Le cose, in montagna, vanno fisiologicamente in modo alternativo. E penso che sia sempre una grande lezione, non tanto per arrendersi ma per non demordere, aggiustando il tiro ogni volta.

E un po’ lo suggerisce anche il nome che in quel caso avete voluto dare alla via: Revers Gagnant, ossia Rovescio Vincente.

Siamo andati in Pakistan in pieno periodo Covid, per questo obbligati a scegliere l’autunno invece che la primavera. Normalmente le condizioni sono migliori in primavera e tutti ci hanno detto “Va bene, ma non avrete successo in una spedizione d’alta quota durante questa stagione”. Per via della pandemia e delle normative in vigore allora, è inoltre stato molto difficile ottenere visti e permessi per poter arrivare al campo base. Insomma, un sacco di cose ci remavano contro, e nella brutta posizione di “rovescio” in cui ci trovavamo, esattamente simile al gesto tennistico, alla fine ce l’abbiamo comunque fatta: abbiamo vinto il gioco con un rovescio vincente. E poi Revers Gagnant è anche il nome di un artista house francese che mi piace molto.

C’è sempre tanta musica nelle tue salite.

La musica è cruciale. Amo in particolare l’elettronica. Ecco la mia playlist.

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