A tu per tu con Chiara Schmidt, la pianista-alpinista che ha suonato su una vetta del Dachstein
“Il vero problema? Salvaguardare le dita mentre arrampico”, dice l’artista milanese ma da tempo trasferita a Salisburgo. Durante il concerto ha eseguito brani di Brian Field, diffondendo l’invito all’azione per contrastare il cambiamento climatico del compositore statunitense
Ho incontrato Chiara Schmidt: alpinista e musicista per passione, 27 anni, nata e cresciuta a Milano. Alla domanda: “cosa fai nella vita” risponde: “suono e scalo. Di professione sono pianista, ho studiato pianoforte e musicologia, prima al Conservatorio di Milano, poi a Vienna e infine al Mozarteum di Salisburgo, dove mi sono fermata. Da brava milanese, arrivando a Salisburgo avevo il terrore che fosse troppo piccola, troppo provinciale. Invece vi ho trovato tutto quello che potessi chiedere. Ho trovato un ambiente musicale internazionale, stimolante e al contempo una città piccola, a misura d’uomo, capace di portarti nel giro di mezz’ora in montagna, in falesia, a fare una via o una gita di sci alpinismo. Al momento occupo una cattedra di pianoforte presso la scuola civica di Salisburgo, il Musikum, organizzo e suono concerti, e appena posso mi rifugio in montagna. Lei è sempre stata presente nella mia famiglia. I miei genitori all’inizio della loro storia, per conoscersi meglio, si sono romanticamente iscritti insieme alla scuola di sci alpinismo “Righini” del CAI. Le mie prime lunghe camminate, prime gite di sci alpinismo, i primi facili 4000 arrivano quindi da quella passione condivisa. Da piccola attorno agli 8 anni mi iscrissi ad un corso di arrampicata in palestra, ricordo che mi divertii molto e che partecipai anche a qualche piccola gara di boulder. A 10 anni però vince la musica: vengo ammessa al Conservatorio e, di conseguenza, le mani vanno protette. La montagna continua ad accompagnarmi nonostante la carriera pianistica, faccio corsi di sci alpinismo, ma continuo a impormi il limite di non dover mai seriamente caricare troppo le mani per scalare”.
Allora quando è avvenuto il cambiamento importante?
Come per molti è accaduto durante il Covid! Tutti i concerti saltati, metà delle lezioni universitarie fatte da remoto le altre cancellate, perché continuare a studiare pianoforte 6 ore al giorno? E così, la montagna in questo periodo si riprende i suoi spazi nella mia vita, per non lasciarli mai più. Inizio a conoscere un gruppo di amici e alpinisti a Salisburgo e a diventare più ambiziosa nei miei obiettivi. L’arrampicata diventa imprescindibile. È un periodo di grande riflessione anche su chi sono, dove voglio andare e cosa voglio rappresentare: mi diventa presto chiaro che la montagna non dovrà più sacrificarsi a scapito del pianoforte. Le due cose dovranno convivere, costi quel che costi.
Musica e scalata, cosa hanno in comune?
In realtà nulla. Eppure per me esiste un filo sottile, ma reale, che le rende due facce della stessa medaglia. Entrambe hanno una forte componente fisica, fatta di studio, fatica, lavoro e sudore, eppure sono totalmente e imprescindibilmente spirituali. La musica, così come la montagna, ci trasporta al di fuori di noi stessi e ci invita a guardare il mondo da fuori, da una nuova prospettiva. Quando sono sul palco mi sento viva come in parete e quando un passaggio di arrampicata non mi riesce, lo studio e ristudio, esattamente come mi esercito al pianoforte. È questa sensazione inebriante di flow, quando ogni movimento avviene nel modo e al momento giusto, rispettando quel delicato equilibrio che è meglio non rompere, in montagna così come sul palco. Hans Dülfer, leggendario alpinista bavarese che ha aperto decine di itinerari visionari sulle montagne del Salisburghese (prima di morire prematuramente senza nemmeno raggiungere i 25 anni) fu a quanto pare anche un discreto pianista. Anche Dülfer ha affermato di studiare l’arrampicata come un brano di pianoforte, e così io ho deciso di chiamare la prima via che ho chiodato sul Plombergstein “Dülfers Etüde” (lo studio di Dülfer, 7a+).
Quali esperienze alpinistiche personali ti hanno maggiormente coinvolto?
Uno dei lati più belli della scalata, è che raramente è solo espressione del puro movimento tecnico e fisico. Le pareti, come queste vengono attrezzate e salite, hanno tanto da raccontare: e così l’arrampicata è per me anche un bellissimo modo per scoprire e conoscere nuovi luoghi. L’estate scorsa l’arrampicata mi ha portato in Madagascar, a Tsaranoro, che è stato forse uno dei miei viaggi più formativi di sempre. Si potrebbero decantare per pagine e pagine le qualità infinite della roccia, lo stile della chiodatura, della scalata, gli avvicinamenti nella savana. Invece la cosa che mi ha colpito di più è come l’arrampicata abbia negli ultimi anni influenzato la vita di questa valle. Spesso lo sviluppo del turismo è pieno di risvolti negativi e quando cresce troppo, va a snaturare quello che erano l’ambiente e la vita delle persone. In questo caso sembra che l’arrampicata possa aver dato un impulso positivo alla comunità locale, che ha recentemente iniziato a produrre i suoi primi climber e chiodatori.
A luglio hai scalato una cima del Dachstein e sulla vetta hai tenuto un concerto per voce e piano: come è nato il progetto?
Una delle mie preoccupazioni più grandi: che queste due passioni che accompagnano e riempiono la mia vita siano egoiste, tutte incentrate attorno alla mia persona e fondamentalmente “inutili”. Da qui il tentativo da qualche anno a questa parte di inserire nei miei programmi sempre una nota politica, un messaggio, perché i miei concerti non siano puro intrattenimento uditivo ma possano diventare uno spunto e un momento di riflessione collettiva. Così quando il compositore americano Brian Field mi ha contattato un anno e mezzo fa per propormi di suonare i suoi brani, ha sfondato una porta aperta e io ho subito detto di sì. Field ha scritto un’opera per pianoforte chiamata “Three passions for our tortured planet”: si tratta di tre brani intitolati rispettivamente “Fire”, “Glaciers” e “Winds”, con i quali ha iniziato un movimento di pianisti da tutto il mondo che, includendo la sua opera nei loro programmi, contribuiscono a diffondere il suo invito all’azione per contrastare il cambiamento climatico. Senza saperlo, Brian mi ha fornito il brano perfetto per quello che da anni era stato un mio sogno: unire le mie passioni per dare vita ad un concerto in alta quota. Per tanti anni però mi era mancato l’ultimo tassello, una motivazione vera e convincente, che trascendesse la mia pura e semplice gioia di unire queste mie due passioni.
Perché proprio nel gruppo del Dachstein?
Il Dachstein è la montagna del Salisburghese, che ospita diversi piccoli ghiacciai che nei prossimi decenni saranno tra i primi a scomparire. L’idea era quella non solo di fare un concerto, ma di creare un film che potesse poi essere proiettato al cinema, per diffondere il più possibile il messaggio. Come palcoscenico abbiamo scelto il “Niederes Dirndl”, un torrione di fianco al Dachstein accessibile da tutti i suoi lati solo da vie di arrampicata. La tastiera l’abbiamo tirata su con un sacco materiali da big wall lungo la via più dura della parete (“Nationalfeiertag”, X-), nella speranza che data la verticalità prendesse meno botte possibili (speranza rivelatasi più o meno vana). Oltre alla tastiera abbiamo portato su due casse, due microfoni, la batteria di un’auto, una chitarra e cavi vari. Cosa ne verrà fuori? Da un lato verrà fuori un “music video” dei tre brani di Field. Questo video sarà disponibile su youtube a partire da febbraio/marzo. Verso la primavera/estate uscirà invece un film che racconta di questa nostra avventura e che ci piacerebbe inviare a vari film festival di montagna (il film sarà in tedesco ma è nostra intenzione sottotitolarlo e diffonderlo anche in Italia). Sono molto emozionata di avere al mio fianco per questo film Jonathan Fäth, un giovane regista e videomaker di montagna bavarese, che ha già accompagnato grandi alpinisti e alpiniste per filmarli durante le loro salite (fra le altre ha accompagnato Jacopo Larcher e Babsi Zangerl in Pakistan, il film è poi uscito su ReelRock). Jonathan ha intenzione di ampliare quella che era la mia idea iniziale di documentare il nostro concerto in alta quota con un documentario più a tutto tondo su arte, musica e montagna.