A tu per tu con Marco Martalar. Il suo Drago di Vaia sta per rinascere. Ma ha già tanti (enormi) fratelli
Dall’arte del togliere a quella del mettere per rendere la tempesta Vaia un evento da cui imparare. Dove ammirare le monumentali opere dello scultore vicentino realizzate anche con il legno degli alberi caduti quella drammatica sera
«È già da un po’ che ci lavoro, ma per il momento ogni cosa è ancora top secret». È con queste parole, riferite al rifacimento del Drago di Vaia, distrutto da un incendio doloso sull’Alpe Cimbra nell’agosto scorso, che iniziamo l’intervista a Marco Martalar, scultore vicentino che ha deciso, negli ultimi anni, di dare nuova vita attraverso i suoi lavori ad un evento tanto funesto come la tempesta Vaia.
«Alcune opere ritraggono animali reali, altri soggetti sono invece mitologici, ed è una scelta che dipende dal messaggio che voglio veicolare, riferito anche al luogo nel quale l’opera viene poi esposta».
Qual era e quale sarà dunque il messaggio del Drago?
«Rappresenta la forza della natura al suo massimale. Un Drago che spazza via tutto e non ha paura di niente, nemmeno del vento che sferzava quella triste notte del 2018. Anche le altre opere simboleggiano una forza analoga, ma declinata più sul rapporto che l’uomo ha con la natura. La Lupa di Vetriolo Terme, ad esempio, è nata dal desiderio di voler evidenziare quanto sia cruciale risolvere le tensioni che spesso caratterizzano il nostro rapporto con l’ambiente, compresi gli animali selvatici con cui dobbiamo convivere».
Si tratta di opere grandi, per non dire enormi. Da dove nasce questa esigenza?
«Mi piaceva che l’impatto visivo fosse forte, così come per me è stata un’esperienza “forte” decidere di cambiare il mio stile e di diventare, da scultore, una sorta di “assemblatore”. Un anno prima di Vaia costruii un’opera con dei listelli di legno dipinti, che avevo nella legnaia. Era qualcosa di decisamente diverso rispetto a tutto ciò che avevo fatto in precedenza. Volevo in qualche modo “uscire dal tronco” che avevo sempre scolpito, affacciarmi su forme d’arte nuove: differenti ma complementari».
Dal togliere al mettere, per certi versi.
«Esatto. La scultura mi costringeva a togliere il legno, levigarlo e plasmarlo finché non usciva l’opera. Questa nuova forma d’arte mi invita invece ad esplorare l’aggiunta, il rimettere insieme. Un’azione quasi costruttiva, curativa».
Poi è arrivata la tempesta Vaia.
«E camminando nei boschi, soprattutto quando già si era cominciato a togliere il primo legname schiantato, ho cominciato a trovare listelli e pezzi di legno abbandonati a terra, che in qualche modo mi richiamavano. Mi piace pensare che, come quei legni hanno attirato la mia attenzione, così io possa fare lo stesso con le mie opere: non tanto l’attenzione su di me o sul mio lavoro, quanto piuttosto sui diversi modi in cui ognuno di noi può essere responsabile nei confronti della montagna».
Parla dei cambiamenti climatici?
«E del potere della memoria. Sono passati ormai 6 anni da quei terribili momenti, sono cose che passano e che l’abitudine rischia di relegare nell’oblio. Invece parlarne, ricordare anche attraverso l’arte, è un modo per tenere i fari puntati su un discorso non ancora concluso. Che sì, è il discorso sui cambiamenti climatici, sull’impatto dell’uomo e sul richiamo alle sue responsabilità, oltre che alla necessità di sentirsi solamente un ospite, nel macrocosmo naturale con cui stiamo entrando sempre più in conflitto».
Nella pratica poi è anche un modo per dare vita a del legname che andrebbe in ogni caso a marcire.
«Assolutamente. Il legname lasciato a terra marcisce molto prima rispetto al legname assemblato, visto che rimane nell’umidità e in balia dei parassiti. Il legno che raccolgo tutt’ora proviene invece dalle radici ribaltate o dalle piante divelte, il che lo rende meno umido perché più esposto all’aria. Da questo legno si potrebbero ancora costruire migliaia di sculture giganti».
Per ora sono “soltanto” una decina però, corretto?
«Sì. Ce ne sono tre in Veneto: il Gallo di Gallio, l’Ape di Val del Chiampo, a San Pietro Mussolino, e la Custode dell’Isola della Certosa, a Venezia. Poi due in Lombardia, ovvero il Basalisc a Cevo, in Val Camonica, e l’Airone a Quinzano D’Oglio, nel cremonese. Infine, altre cinque in Trentino: l’Aquila a Marcesina, il Grifone a Castel Tesino, la Lupa a Vetriolo Terme, il Cavallo a Strembo e ovviamente il Drago di Magrè». Dal quale siamo partiti. «E che, se tutto va bene, potrà rinascere già entro l’estate» conclude Martalar.