Itinerari

Sul Sentiero Walter Bonatti, tra intime suggestioni e ricordi di imprese

Il tracciato parte dalla casa di Dubino, dove l’alpinista trascorse gli ultimi anni della sua vita, e arriva in Val Masino. Due giorni a fil di cielo durante i quali si rivive l’epopea di un uomo straordinario

Bonatti è l’uomo del Grand Capucin, lo scrittore di “Montagne di una vita” e l’artista delle più belle foto della rivista “Epoca”. Quando il suo nome arriva alle orecchie di chiunque, italiano o argentino, amante del mare o della montagna che sia, nella mente lo si associa alla parola Alpinismo con la “A” maiuscola. 

Dare il suo nome a un sentiero altro non è che dirgli grazie per l’eredità alpinistica lasciata al mondo, un patrimonio materiale e immateriale fatto di libri, fotografie, racconti, vie sulle montagne più belle della Terra e una sana etica nel frequentarle. Sono 25 km di terra, rocce e pascoli che rispecchiano il suo carattere saturo di voglia di avventura ed esplorazione. Il sentiero si snoda infatti in un angolo remoto, sfuggito al turismo di massa, tra Costiera dei Cech, Valle dei Ratti, Valle di Spluga e Val Masino.

Si parte da Dubino, dove Bonatti abitò a lungo

Si mette lo zaino in spalla proprio presso la casa dove Bonatti visse dai primi anni ‘90 con Rossana Podestà. E’ Monastero, la frazione del paese di Dubino, al cospetto del grandioso Monte Legnone che, con i suoi 2610m, sorveglia Lago di Como, Valsassina, Valtellina e Valchiavenna. Sotto al primo cartello una fontanella utile per riempire le borracce lascia pensare a quante volte Bonatti, passando di lì, si rinfrescasse prima di volgere lo sguardo alla tozza piramide sull’altro lato della valle. 

Bolli bianchi e rossi accompagnano lungo tutto l’itinerario e, insieme a pochi ma puntuali cartelli luccicanti, aiutano a non perdersi. Buon senso dell’orientamento, una cartina e bel tempo sono comunque indispensabili. Non bisogna infatti aspettarsi continui aggiornamenti sui minuti o i metri mancanti. L’itinerario va percorso con passo corto e lento; “Kalipè” come si augura a chi parte per un cammino in Himalaya. Solo così si può respirare l’aria frizzante dei boschi appena sopra il paese e sentire il fuggire di un capriolo o lo sbattere d’ali di una civetta. 

Appena il rumore della frenetica Valtellina industriale lascia spazio al solo fruscio delle foglie, per un breve tratto i piedi calpestano sassi di calcare spuntati qui per qualche mistero geologico. CaCO3, carbonato di calcio, è il nome scientifico di questa roccia sedimentaria che segnò l’inizio della carriera verticale di Walter. Appena diciottenne tocca per la prima volta la calcarea roccia del Campaniletto, una guglia sulla Grigna Meridionale, ed è subito amore. Lecco e le sue montagne sono la scuola dove allenarsi, tracciare nuove vie, come le celebri Bonatti alla torre Costanza e alla Corna di Medale, e conoscere tanti amici. Pur essendo nato a Bergamo, la città “su quel ramo del lago di Como” diventa subito casa e questo legame è sancito dall’ammissione nel Gruppo Ragni.

Se al semplice calcare si aggiunge del magnesio ecco l’altro terreno dove Walter posa le mani: le Dolomiti. Nel 1953, allenatosi ai gelidi bivacchi in cima alla Grignetta, sale con Carlo Mauri la Nord della Cima Ovest di Lavaredo realizzandone la prima invernale.

Un sentiero non banale che regala emozioni 

Decisamente più mite il clima lungo la cresta del sentiero a lui dedicato sempre che si scelga il periodo giusto; meglio a stagione inoltrata quando la neve è ormai sparita. Pochi tocchi di pollice e il bollettino meteo permette di scegliere due belle giornate, meglio tre per sicurezza; un lusso che tanti alpinisti avrebbero voluto. 

Le ore passano, il dislivello si accumula nelle gambe e gli occhi riempiono il cuore di gioia quando, dopo boschi di pini silvestri prima e betulle poi, si sbuca sul Monte Foffricio. Sicuramente anche i radiosi occhi di Walter ammirarono la Val dei Ratti e sognarono linee sul selvaggio Sasso Manduino che la separa dalla Val Codera. La cresta, semplice ma a tratti esposta, accompagna tra gli abeti fino al monte Bassetta per poi perdere quota, mentre il sole si abbassa all’orizzonte.

Il Bivacco Primalpia, a 1980m, segna la fine del primo giorno di cammino. L’orologio GPS segna 2350m di salita e tra le 8 e le 10 ore di cammino. Proprio qui, il 9 agosto 2014, venne fatta la festa di inaugurazione di questo percorso, realizzato dal CAI di Novate Mezzola-Verceia. Solide mura, tetto in lamiera, bei letti, pannello fotovoltaico e perfino gas per cucinare. Quanto avrebbe pagato per tutti questi comfort l’amico Ghigo, quella notte del 22 luglio 1951, sul Grand Capucin. Ma dopo una notte appesi, con le corde che stritolano le cosce, l’alba gli permise di salire sotto il nevischio fino alla vetta di quel magnifico pilastro rosso del Monte Bianco.

La sveglia sotto le coperte di uno dei 18 letti del bivacco è sicuramente meno traumatica, anzi, sorseggiando un buon caffè, gli occhi godono di un’alba spettacolare. Se questi sono già attivi possono spingersi sempre più lontano fino al Monte Rosa che cela una piramide perfetta di 4478m. Proprio la parete più austera, impegnativa e fredda è stata la tela sulla quale Bonatti ha scritto l’ultimo saluto all’alpinismo, almeno a livello pubblico. E’ il 18 febbraio 1965 quando parte, da solo, lungo una nuova via sulla Nord del Cervino, toccandone la vetta ben quattro giorni dopo. 

Voltate le spalle al Matterhorn e a quella casetta sperduta dalle ante rosse e bianche, si lascia la Val dei Ratti così come l’abbandonarono i malgari della nobile famiglia della quale restano solo il nome e qualche rudere. 

Non meno selvaggia è la Valle di Spluga che si percorre restando alla quota di praterie alpine, pietraie e al cospetto dell’omonimo laghetto. L’acqua pura, fredda e trasparente è metafora stessa dell’animo del grande alpinista. Bonatti è un uomo sincero, onesto e leale con se stesso, la montagna e con gli altri; proprio per questo e per il suo grande talento suscitò anche inimicizie ed invidie. Il caso del K2 ne è l’esempio più lampante. E’ noto come i grandi alpinisti siano a tratti duri e spigolosi come le rocce che li attirano ma dentro ardono di passioni, sentimenti forti e amore per la vita. 

Lo spettacolo della Val Masino del Passo del Calvo

Impossibile non capirlo appena si giunge, con qualche tratto attrezzato, al Passo del Calvo. Con i suoi 2750 metri è il punto più alto del sentiero dove l’anima trova una leggerezza assoluta. Fermato il battito cardiaco e rallentato il respiro per lo sforzo, lo sguardo inizia a spaziare da est a ovest, dal basso in alto e lungo ogni piano di profondità. Walter stesso insegna come serva forza interiore per misurarsi con la Natura, madre e matrigna, che non perdona gli errori ma ricompensa con emozioni uniche chi ha il coraggio di affrontarla. 

Natura che ha voluto regalare al mondo degli scalatori una valle di infinite guglie e pareti di granito. Dal Passo, la Val Masino si mostra in tutta la sua grandezza: dai vicini Pizzi dell’Oro fino al Monte Disgrazia che la separa a sua volta dalla Val Malenco. Scrisse Bonatti: “Nelle grandi occasioni si puntava alla Val Masino: era l’università, lì ci si laureava alpinisti”.

Un riflesso e un puntino giallo attirano gli occhi poco lontano. Di cosa si tratta? Sono una aguzza piramide di metallo e il Bivacco Redaelli posti sulla vetta del Pizzo Badile. Chissà quante volte Walter toccò questo punto. D’obbligo ricordarne una, quando, a 19 anni, sbucò qui dopo aver ripetuto la via di Vitale Bramani e Ettore Castiglioni sulla parete nord-ovest.

Sicuramente cavalcò anche il mitico Spigolo Vinci, sull’adiacente Pizzo Cengalo, e si addentrò a mettere mano sui remoti Pizzi del Ferro, Pizzi Gemelli e sulle Cime di Zocca e di Castello che, dal Passo del Calvo, appaiono pur senza mostrarsi per intero. 

Ultima sosta al Rifugio Omio

Per oggi l’orologio ferma il conto a 750 metri di salita e ormai la quota può solo calare. Recentemente sistemato, il sentiero della Valle dell’Oro prosegue per pascoli verso est fino al Rifugio Omio, bianca struttura dal tetto rosso a quota 2100 m. Distrutto dai nazifascisti nel 1944 perché usato dai partigiani e ricostruito quattro anni più tardi, il rifugio è dedicato ad Antonio Omio. Sulla vicina punta Rasica avvenne la tragedia del 1935 che costò la vita a lui e ai suoi cinque compagni. Una vicenda che ispirò Vitale Bramani nell’invenzione della suola gommata che porta il suo nome, Vibram. 

Fermarsi per un pizzocchero e una fetta di torta di grano saraceno è d’obbligo, un lusso rispetto alle mestolate di minestra e vino rosso che Bonatti e compagni ricevevano qualche decennio fa. 

La parte avventurosa è finita, non resta che scendere accompagnati dai campanacci e dal vociare degli altri escursionisti saliti per pranzo. Persi 900 metri di quota, nell’attesa del bus ai Bagni di Masino ci si gode la pace del bosco mettendo in acqua i piedi stancati dalle circa sette ore di cammino di questo secondo giorno.

Questo è il Sentiero Bonatti, un percorso selvaggio e poco noto che porta il nome di uno dei più noti alpinisti al mondo. Strano vero? Per chi lo ha conosciuto di persona o ha letto “Una vita così” o percorso la sua mitica via al Dru, non sarà così difficile comprendere l’affinità tra il carattere suo e quello del cammino a lui dedicato. 

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