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A tu per tu con Marco Berti, autore di La montagna non ride e non piange

L’esperienza maturata in 27 spedizioni su montagne over 6000 metri, la voglia e la capacità di guardarsi dentro. Riflessioni lontane dai luoghi comuni

Un titolo curioso, ma che induce a riflettere. “La montagna non ride e non piange” (Solferino) è l’ultima fatica letteraria di Marco Berti. Alpinista e scrittore, ventisette spedizioni su montagne tra i 6000 e gli 8000 metri e lunghe frequentazioni con le popolazioni locali in Asia, Berti non è mai banale.

Lo abbiamo intervistato nei giorni scorsi a margine di una presentazione del libro, avvenuta a Cortina nell’ambito di “Una montagna di libri” in un dialogo con Francesco Chiamulera, responsabile del festival letterario. “Questo è prima di tutto un omaggio alla montagna”, esordisce l’autore. «Niente di tecnico. C’è il mio vissuto ma non è un’autobiografia. È un racconto, attraverso una scalata che ho fatto da ragazzo, in cui faccio una serie di riflessioni sul mondo della montagna, soprattutto sull’amicizia».

Se non ride e non piange, cosa fa allora la montagna?

«È una frase che ripeto da trent’anni. Non sopporto in particolare quando si dice che la montagna è assassina. La montagna non è umana. Siamo noi che scegliamo la montagna come un luogo per esprimerci. Certe volte l’incidente nasce da situazioni sfortunate, certe altre sai che il rischio è elevato. Lo dico soprattutto per la gente che la montagna la guarda dal basso e che più si fa impressionare da questi termini. E in montagna non esistono eroi. Eroi sono solo gli uomini del Soccorso alpino che non di rado perdono la vita per salvare quella degli altri».

È ancora vero che in montagna si manifesta la semplicità del vivere?

«Per semplicità io intendo affrontare la montagna con il mio stile, utilizzando le risorse psicologiche e fisiche, al di là dell’evoluzione dei materiali. Soprattutto nelle situazioni difficili sei costretto ad essere semplice. Puoi avere tutti gli strumenti che vuoi, ma sei obbligato a ricorrere alle tue risorse basiche, che sono semplici e che si esprimono con la tua persona».

Sembra che si assista a un appiattimento, che la montagna non sia così distante dallo stile di vita cittadino. Concorda?

«Condivido. Oggi sui social la gente, quando deve fare vedere cosa ha fatto, soprattutto in ambito escursionistico, non racconta l’emozione, mette il dislivello, la difficoltà, le ore, sempre in competizione con qualcuno. Non c’è quasi mai un vissuto della montagna fatto di un bisogno interiore di andare là, e di ricevere di ritorno da parte della montagna le emozioni che cerchiamo, ma è sempre un apparire e un misurarsi con gli altri. La montagna sta subendo questo tipo di persone. La montagna che non piange e non ride subisce l’uomo che è devastante. Se la gente andasse in montagna per il piacere di vivere quell’esperienza probabilmente il turismo sarebbe molto più distribuito e certi luoghi meno inflazionati».

Quale una possibile ricetta contro lo spopolamento della montagna?

«Il problema è che la montagna ha solo la dimensione turistica e il turismo erode una quotidianità che un tempo era fatta da tanti ruoli all’interno di una comunità. Tutto si incanala all’interno del turismo. La cosa ha un senso, intendiamoci, perché quella è la risorsa. Però nessuno ha mai fatto niente affinché le altre opportunità offerte dalla montagna vengano valorizzate in maniera equilibrata. Immagino però che con le temperature che si innalzano, una probabile migrazione verso le terre alte»

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