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Cave del Predil, in Friuli, dove si arrampicava sul marmo

Sulla parete artificiale allestita alla metà del secolo scorso in una palestra, si sono allenate generazioni di scalatori. Una storia tutta da leggere

Ci sono luoghi e opere che perdono centralità nelle vicende economiche umane dopo lunghi periodi di ricchezza. Il tempo, la polvere e il degrado vi si posano riducendo le loro forme a grigi scheletri dell’opulenza che fu, facendo sbiadire le vicende umane a essi legate, lasciandone qualche traccia nella memoria o negli archivi.

A Cave del Predil (Raibl in tedesco), nel cuore delle Alpi Giulie e a pochi chilometri dalla Slovenia, è sopravvissuta la palestra artificiale indoor più antica d’Italia, un primato che forse può essere esteso all’Europa. Una chicca, una curiosità, un piccolo tesoro caduto nel dimenticatoio, e rimasto nascosto ai più dopo la chiusura negli anni Novanta della storica Miniera di piombo e zinco – attiva dal Trecento – che ha dato vita al paese.

Un manufatto unico, se si pensa che le prime palestre artificiali indoor italiane nascono negli anni Ottanta. Riferisce Enrico Camanni che “la prima è stata il Palavela di Torino nel 1981, voluta dall’architetto alpinista Andrea Mellano, che fu dedicata a Guido Rossa alla presenza di Massimo Mila.”

La parete di Cave, alta circa sei metri e larga altrettanto, è all’interno della palestra delle Miniere. E’ realizzata con lastre di marmo di due colori (scure in basso e chiare in alto), con appigli e appoggi in metallo. C’è anche una fessura-camino aggettante. La sua esistenza s’intreccia con la nascita del Soccorso Alpino in Friuli-Venezia Giulia, con la figura dell’alpinista tolmezzino Cirillo Floreanini – tra i membri della spedizione del 1954 al K2 – e con le sorti di chi tenne le redini della Miniera a metà del Novecento.

A segnalarne l’esistenza sono alcuni appassionati di montagna e arrampicata cavesi, preoccupati per il degrado in cui versano quegli ambienti e per il futuro della paretina, che vanta una storia peculiare.
Nasce alla fine degli anni Quaranta, quando a capo della miniera c’è Giovanni Nogara, discendente di una famiglia di finanzieri di Bellano, nel Comasco. Giovanni, figlio di Bernardino Nogara, proprietario della miniera, fa realizzare la palestra e la parete, facendo impiegare materiali di pregio.

Le altre pareti della palestra erano in origine rivestite di sughero, poi sostituito o depredato dopo la chiusura della Miniera. L’accesso alla palestra era riservato agli impiegati di grado elevato. A Cave del Predil, in quegli anni Nogara “aveva impiantato, mutuandolo dai britannici, un sistema piramidale di governo”. Non solo nella ripartizione del lavoro, ma anche negli svaghi e nel tempo libero dei dipendenti, come ricorda Loris Savio, originario dell’Agordino e per anni al servizio dello stabilimento.

Savio, classe 1945, è stato dipendente della Miniera, e intanto ha retto per vent’anni la stazione di Cave del Predil del Soccorso Alpino. “La palestra, così come il campo da tennis e altro, erano a uso esclusivo dei tecnici di livello superiore. Certamente Ignazio Piussi, che era operaio, non ha toccato i suoi appigli, anche perchè ha lavorato qui per poco tempo”.

La sala del cinema era divisa in due da una staccionata: gli impiegati di livello potevano andare nella galleria con le poltrone in velluto, la platea era per altri impiegati e gli operai. Più in su andavi più avevi diritti. Io ho iniziato nel 1966, quando mia nonna era segretaria di Nogara e avevo diritto a dei privilegi. Quando lei è morta i privilegi sono finiti”.

Fu costruita per gli allenamenti del figlio di un dirigente della miniera (e dei suoi amici)

A chi era destinata la preziosa parete per l’arrampicata? La risposta va cercata nella famiglia Nogara. L’ingegnere aveva una moglie britannica – si era formato in Inghilterra e in Australia – e due figli, Johnny (detto Johndino o Iondino) e Peter. In particolare Johndino era stato preso da grande passione per l’alpinismo – fu per monti anche con l’alpinista friulano Oscar Soravito – e cominciò ad accompagnarsi al neonato gruppo di forti arrampicatori di Cave del Predil.

Questi erano quasi tutti bracconieri di razza – tra quei monti era giocoforza diventarlo – dotati di naturale istinto per la caccia e per la scalata su roccia, ma privi di conoscenze sulla sicurezza e l’uso della corda. Di quel momento fu testimone Cirillo Floreanini, assunto nel 1948 come tecnico dalla Società Mineraria del Predil, che così scrive in un ricordo di Ignazio Piussi.

A Cave, paese un po’ fuori dal mondo, stava crescendo un gruppo di giovani appassionati della montagna, e il loro entusiasmo li portava a osare oltre le proprie capacità tecniche, tanto che il loro capo un giorno non fece ritorno al paese. Lo trovarono dopo alcuni giorni, morto, sul versante occidentale del Mangart”.

Il fatto – prosegue Floreanini – destò molta impressione in tutto il Friuli ma in particolare a Cave del Predil, e molta apprensione soprattutto tra i genitori dei giovani amici dello scomparso, a cominciare dall’ingegner Giovanni Nogara, allora direttore delle Miniere, il cui figlio (Iondino) apparteneva a questo gruppo”.

L’ingegner Nogara, ritenendo inumano, se non impossibile, impedire ai ragazzi di frequentare la montagna in un luogo come Cave del Predil, ebbe l’idea di trovare un “istruttore” che potesse insegnare loro le tecniche alpinistiche e soprattutto di assicurazione. Ed eccomi subito impegnato a dirigere il mio primo Corso di Alpinismo”.

La testimonianza di Floreanini s’intreccia con la nascita della parete artificiale, ma anche del gruppo di rocciatori, della stazione del Soccorso Alpino e del CAI di Tarvisio. Svela il nesso una preziosa foto d’epoca che raffigura Floreanini nella palestra mentre fa sicura con la corda a Johndino Nogara impegnato a scalare sul muro di marmo.

La riproduzione della foto, gentilmente concessa dal soccorritore Leopoldo Komac, che si dedica da anni al recupero di testimonianze storiche e documenti sul Soccorso Alpino di Cave del Predil su cui sta pubblicando un libro, è al momento la testimonianza più antica sulla parete attrezzata.
A che anno risale? E’ sicuramente precedente all’agosto del 1950, quando Johndino morì, ventenne, a seguito di un incidente sul Lago di Como. Lo ricorda un libretto commemorativo pubblicato per i cinquant’anni della Riserva di caccia intitolata a Johndino e Peter Nogara.

[Nogara], diede vita, specialmente sullo sprone dei figli, alla sezione “Monte Lussari” del CAI di Tarvisio la quale costituì nel suo seno la squadra di soccorso in montagna e il Gruppo Rocciatori di Cave del Predil. Questo gruppo fu artefice di una straordinaria attività alpinistica tanto sulle vette di casa quanto sulle vicine Dolomiti, negli anni compresi tra il 1950 e il 1960”.

Uno dei protagonisti principali di questa attività fu proprio uno dei figli dell’ingegnere, Johndino […] Tenacemente legato alle sue montagne e appassionato della fauna alpina fu stroncato prematuramente nell’agosto 1950 da una morte precoce e inattesa. Con l’intento di compiere alcune escursioni e salite nel gruppo del Badile, ostacolato dal maltempo, nel corso di un temporaneo soggiorno nella casa degli avi sulle rive del Lago di Como, trovò la sua morte proprio nelle acque del lago”.

Ai fratelli Nogara, Johndino e Peter, sono dedicate la ferrata italiana al Monte Mangart – nata per creare un accesso a quella montagna in territorio italiano, quando il confine con la Jugoslavia era vigilato da miliziani armati – e il sottostante bivacco, che si trova in uno dei luoghi più suggestivi delle Giulie, tra la parete Nord del Mangart e la conca dei Laghi di Fusine.

Più tardi la paretina è stata utilizzata dagli uomini della stazione di Cave del Predil del Soccorso Alpino (che conserva il nome originario anche se oggi ha sede a Tarvisio). Quasi tutti gli over 50 della Valcanale che arrampicano sono stati almeno una volta nella vita a “giocare” su quella parete. Tra questi anche Romano Benet, che usa proprio il verbo “giocare” per ricordarla.

Noi, la sottoscritta e l’autrice delle foto, ci entriamo in un giorno di cieli ottobrini grigi, accompagnate dal sindaco di Tarvisio, che non si pronuncia sul futuro e sul possibile destino del manufatto verticale. Di certo lo si può considerare a tutti gli effetti un bene culturale: per anzianità raggiunta, per composizione pregiata, per unicità. Ma anche il ricordo di un’epoca di ricchezza, sopravvissuta al tempo e all’abbandono.

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