Gente di montagna

Ermanno Salvaterra, tra le Dolomiti di Brenta e il Cerro Torre

Il ricordo del grande alpinista trentino, scomparso la scorsa estate, che oggi avrebbe compiuto 69 anni

Ermanno-Salvaterra-photo-courtesy-Ermanno-Salvaterra
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“Il Brenta? Posso dire che ci sono quasi nato. Già a 4 anni la mia famiglia gestiva il rifugio ai XII Apostoli, quindi io passavo tutta l’estate lì. Di solito i bambini amano arrampicarsi sulle piante, ai XII le piante non esistono, però ci sono le rocce… Avevo forse 7 anni quando il mio caro papà Adolfo mi portò a fare la ferrata Castiglioni, fu una bella esperienza con tanto vuoto sotto i piedi. L’anno dopo, era il 1963, sono partito da solo verso la Bocca dei Camosci. Poi ho attraversato il ghiacciaio e sono salito alla Bocca d’Ambiéz, quindi giù al Rifugio Agostini e su alla ferrata Castiglioni. Mia zia mi ha chiesto dove ero stato, ho semplicemente detto che ero stato a giocare vicino al ghiacciaio d’Agola”.

Così, qualche mese fa, Ermanno Salvaterra raccontava la sua scoperta della roccia delle sue vette di casa nell’ultimo volume di Dolomiti di Brenta, la nuova guida curata da Francesco Cappellari per Idea Montagna. Pagine dedicate alla Cima Tosa e al Crozzòn di Brenta, una muraglia dove Ermanno sale decine di volte e apre delle vie nuove. A proposito della Super Maria, aperta nel 1992, scrive “l’ho giudicata, forse egoisticamente, come la più bella via del Brenta”.

Gran parte della vita di Ermanno si svolge tra Pinzolo e le Dolomiti di Brenta, che si affacciano dall’alto sul paese. Per lui, come per altri valligiani, la montagna è prima di tutto lavoro, e infatti il bambino che passava le estati tra le rocce a 20 anni diventa maestro di sci, e a 24 guida alpina. Per decenni, sull’esempio del padre, il giovane Salvaterra gestisce il rifugio XII Apostoli, uno dei più remoti del massiccio.

Quando gli impegni si diradano, Ermanno apre vie nuove, ne concatena altre in solitaria, compie imprese che lo fanno entrare nell’élite dell’alpinismo europeo. Oltre alla Super Maria, 800 metri con difficoltà fino al settimo grado, apre altre due vie sul Crozzòn, due sul Campanile Basso e una sulla Cima d’Ambiéz.

Nel 1989, sfuggendo al lavoro di rifugista e di guida, concatena slegato, in poco meno di 12 ore, cinque grandi vie classiche intorno al sesto grado come il Pilastro dei Francesi sul Crozzòn, la parete Est del Pilastro della Tosa, lo Spigolo Graffer del Campanile Basso, la parete Est della Brenta Alta e il Diedro Oggioni del Campanile Alto. Tra le sue discese di sci estremo spiccano la Nord della Presanella e il Canalone della Tosa. Nel 1988, con 211,640 chilometri all’ora, stabilisce il record italiano sul chilometro lanciato con gli sci.

Un mese fa, il 18 agosto del 2023, la vita di Ermanno Salvaterra finisce tragicamente sulle rocce del Brenta, lungo una via classica che lui ha percorso per decine di volte. Affronta con un cliente la via Hartmann-von Krauss al Campanile Alto, terzo e quarto grado su roccia magnifica. Non sappiano se a tradirlo è un movimento sbagliato, un malore o un appiglio che si spezza. Cade per venti metri, muore sul colpo, il cliente viene recuperato, illeso e sotto choc, dall’elicottero del Soccorso.

Il grande amore per le montagne della Patagonia

La Patagonia argentina entra nella vita di Ermanno Salvaterra nel 1982, quando ha 27 anni. A suggerirgli di partire per l’Argentina è stato Renato Casarotto, un grande alpinista vicentino, che tre anni prima ha superato da solo il Pilastro Nord del Fitz Roy. Ermanno si innamora a prima vista del Torre. “E’ la montagna più bella del mondo” mormora a sé stesso quando lo vede per la prima volta, in lontananza, dal pick-up sgangherato di un gaucho che porta lui e i suoi compagni di avventura verso El Chaltén.

In quella prima esperienza, insieme all’amico Elio Orlandi, Salvaterra sale la Via del Compressore tracciata da Cesare Maestri sulla parete Est del Torre. La stanchezza, la mancanza di viveri e la bufera in arrivo li costringono a scendere a poche decine di metri dalla cima.

Un anno dopo, con Maurizio “Icio” Giarolli, Ermanno risale lungo i chiodi a pressione, torna al compressore, riparte per esili fessure di granito dove scopre le protezioni lasciate nel 1979 da Jim Bridwell. L’ultimo tratto su ghiaccio è facile, poi c’è soltanto la vetta. “Ho un nodo alla gola, in me scorre un fiume di emozioni così forte che non trova altra manifestazione se non il silenzio” scriverà Salvaterra in Patagonia. Il grande sogno, uno splendido libro curato da Mattia Fabris che esce nel 2021 da Mondadori.

Poi, una spedizione dopo l’altra, Ermanno Salvaterra diventa il padrone di casa del Cerro Torre, l’“Urlo di Pietra”, la guglia di granito che affascina e attira i migliori alpinisti del mondo. Nel 1985, al termine di una spedizione durissima, l’alpinista di Pinzolo compie la prima invernale insieme a Giarolli, Andrea Sarchi e Paolo Caruso. Tra un tiro di corda e una slavina, gira un documentario per Jonathan, dimensione avventura, il programma di Ambrogio Fogar.

Nel 1995, con Roberto Manni e Piergiorgio Vidi, Ermanno affronta la parete Sud del Torre, “un muro verticale di granito, liscio e piatto come vetro”. Per aprire la via Infinito Sud i tre restano in parete 24 giorni, bivaccando in un box di alluminio, che issano con enorme fatica dietro di loro. Gli strapiombi impediscono una ritirata verso il basso. Manni, Vivi e Salvaterra completano la via, toccano il compressore, ma devono scendere senza raggiungere la cima.

Nel 2004, con Alessandro Beltrami e Giacomo Rossetti, Ermanno torna sul Torre aprendo la via Quinque anni ad paradisum sull’elegantissima parete Est. Un anno dopo, insieme a Beltrami e a Rolando “Rolo” Garibotti, fortissimo alpinista argentino e grande esperto del massiccio, calca ancora una volta la cima dopo aver aperto El Arca del los Vientos sulla parete Nord.

Non è solo un grande exploit alpinistico ma anche un viaggio nella storia, sull’itinerario che Cesare Maestri ha affermato di aver salito fino in vetta nel 1959 insieme a Toni Egger, poi caduto durante la discesa. Fino a quel momento Salvaterra, che vive a pochi chilometri di distanza da Maestri (il primo a Pinzolo, il secondo a Madonna di Campiglio) non ha preso posizione nelle discussioni che s’intrecciano su quella salita, che gran parte degli alpinisti considerano un falso.

Ora, sommessamente, il tono cambia. “Anche se la storia vuole che Egger e Maestri ci siano già passati, non ci ritroviamo in nessuno dei resoconti di quest’ultimo, e diamo per assodato che dobbiamo procedere come su una via nuova” scriverà Ermanno in Patagonia. Il grande sogno. “Tra il Cerro Torre e le vette vicine ho passato in parete oltre 130 notti” scrive l’alpinista di Pinzolo. Reinhold Messner, nella prefazione, celebra l’alpinismo “di altissimo livello” di Salvaterra sul Torre, e lo ringrazia per l’aiuto “prezioso e generoso” nella preparazione del suo film.

In Patagonia come su tutte le montagne della Terra, le difficoltà e i pericoli non finiscono con l’arrivo sulla cima. Nel 1995, dopo aver aperto Infinito Sud con Manni e Vidi, Ermanno torna finalmente ai piedi del Cerro Torre. Esausti, con alle spalle 24 giorni in parete e 800 metri di doppie, i tre scendono in cordata sul ghiacciaio. Sulla cresta della Medialuna, un’affilata lama di ghiaccio, Roberto scivola e cade, trascinando Piergiorgio. Ermanno per istinto si tuffa dall’altra parte, blocca la caduta dei compagni grazie alla corda che taglia il filo della cresta.
“Quando siamo di nuovo tutti e tre sulla cresta ci guardiamo. Ognuno di noi sa che poteva essere la fine di tutto, nessuno commenta l’accaduto. La ragione di quel silenzio è una sola, tutti sappiamo che la montagna è così. Un attimo ci sei, e il secondo dopo potresti non esserci più”. Il 18 agosto di ventotto anni dopo, sulle rocce assolate del Campanile di Brenta, a Ermanno Salvaterra è successo proprio questo.

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