Romano Benet e Roberto Mazzilis raccontano come è cambiata la via Piussi al Piccolo Mangart di Coritenza
La morte di Lorenzo Paroni e Giulio Pacchione ha riportato in primo piano una via estrema e poco frequentata delle Alpi Giulie. Che sembra non essere più la stessa
Lunedì 21 agosto a Tarvisio è stato dato l’ultimo saluto a Lorenzo Paroni e Giulio Pacchione, i due giovani finanzieri soccorritori che hanno perso la vita scalando la via Piussi al Piccolo Mangart di Coritenza. I loro corpi sono stati trovati ancora legati entrambi al cordino di sosta, fatto che lascia supporre che la causa dell’incidente sia stata un crollo roccioso che ha trascinato entrambi alla base della parete. L’imponderabile avrebbe quindi travolto gli sfortunati scalatori, che lasciano un grande vuoto anche nel corpo del Soccorso Alpino e Speleologico FVG.
La via aperta da Ignazio Piussi tra l’11 e il 13 agosto del 1962 sul Piccolo Mangart di Coritenza in tre giorni di arrampicata assieme a Sergio Bellini e Umberto Perissutti è considerata uno dei banchi di prova più impegnativi delle Alpi Giulie. La sua lunghezza, le difficoltà sostenute, l’isolamento, l’esposizione settentrionale e l’arrampicata tecnica e poco proteggibile, sono le caratteristiche che ne fanno ancora oggi, assieme al Diedro Cozzolino e ad altre poche vie nel gruppo del Mangart, un punto d’onore nel curriculum di un alpinista. L’itinerario vanta rarissime ripetizioni ed è una di quelle scalate che lasciano il segno nei ricordi, per l’ambiente e le suggestioni che restituisce (un bel racconto sulla via, molto personale, ma carico appunto di suggestioni contagiose, è quello scritto da Saverio D’Eredità, https://rampegoni.wordpress.com/2017/12/09/mangart-nel-giardino-della-luna/, che lo ha percorso nel 2015 assieme a Andrea Fusari e Stefano Salvador).
Per la prima ripetizione della Piussi al Piccolo Mangart passarono 11 anni – nel 1973 gli sloveni Jože Rožič con Zvone Andrejčič, come documentato sul sito di Peter Podgornik www.primorskestene.com – e ne servirono 13 per la prima ripetizione italiana, realizzata da una doppia cordata composta da Attilio De Rovere con il mitico Ernesto Lomasti e da Roberto Simonetti con Valter Cucci.
Mazzilis e Benet insieme sulla Piussi nel 1981
Nel 1981 si avventurano sulla grande muraglia di calcare di circa 800 metri del Piccolo Mangart due giovani, un ventunenne e un diciannovenne, che oggi sono due grandi nomi dell’alpinismo, in ambiti differenti e diversamente portavoce di un alpinismo by fair means.
Quei due ragazzi erano Roberto Mazzilis, il fuoriclasse tolmezzino classe 1960, autore di centinaia di vie nuove di elevata difficoltà sulle Alpi Carniche e Giulie, e Romano Benet (classe 1962), l’alpinista di Fusine, che ha scalato assieme alla moglie Nives Meroi tutti i quattordici Ottomila.
“Avevo notato”, ricorda Roberto Mazzilis, “le grandi capacità di Romano e così gli ho proposto di fare la Piussi al Piccolo Mangart. Ci siamo divertiti, la trovai una via bellissima e impiegammo un tempo da record nel farla, cinque ore, se non ricordo male. Fu la prima ripetizione in libera, dove Piussi aveva affrontato qualche passaggio in artificiale: la valutai VI+. Erano i primi anni in cui si usavano le scarpette e arrampicammo in scioltezza: allora era pulita. Romano era spigliato, un bel carattere, e svelto come arrampicatore”.
“Con Roberto” racconta a sua volta Romano Benet, che è nato e vive sotto le pareti del Mangart, “avevamo salito nello stesso anno la Piussi alla Veunza. Su quella via aveva potuto vedere che gli stavo dietro (ride) e mi ha proposto la Piussi al Piccolo Mangart. Era una bella occasione, sapevo che aveva arrampicato con Lomasti, l’alpinista più forte del Friuli. Fummo velocissimi, me ne ricordo bene. Ha condotto sempre lui: mi ha ceduto il comando solo per due tiri, facendomi un grande favore”, aggiunge con ironia. Per entrambi il buon ricordo di un bell’itinerario condiviso con successo.
L’erba ha riempito le fessure, la via è cambiata, sottolinea Mazzilis
Le esperienze successive, soprattutto quelle più recenti, hanno portato, a distanza di anni, valutazioni diverse su quella via da parte di entrambi. Sulle cause delle mutate impressioni Mazzilis e Benet hanno pareri differenti. Per Mazzilis è un oggettivo cambiamento delle condizioni delle vie, per Benet, una perdita di consuetudine con il tipo di arrampicata che le Giulie richiedono.
“L’ho ripetuta” continua Mazzilis, “nel 2008 con Fabio Lenarduzzi in 7 ore e l’ho valutata più impegnativa e con qualche tratto friabile. L’itinerario nella parte centrale sotto i tetti non era evidentissimo e abbiamo fatto delle varianti. Ricordo che la trovai molto inerbita, al punto che non l’avrei consigliata a nessuno. Con l’innalzamento delle temperature in Alpi Giulie è cresciuta parecchia vegetazione e tante vie prima piacevoli si sono inerbite: l’erba cresce nelle fessure e le chiude, costringendo a cercare altri passaggi. Se mi si chiedesse un consiglio, oggi, direi di farla con molta attenzione. Questo per esempio non succede nelle Alpi Carniche, dove la roccia è sempre stratosferica e le pareti rocciose uniche come compattezza. Le vie in Giulie, soprattutto quelle selvagge e ombrose, sono in parte rovinate dall’erba: lo dimostra il fatto che di recente sono tornato a rifare la Piussi alla Veunza, che avevo affrontato in solitaria, e per puro caso ho ritrovato un moschettone blu che avevo lasciato in una fessura, completamente inglobato nell’erba, al punto che non riconoscevo più il passaggio. Ho dovuto cercare a lungo prima di vederlo: l’ho recuperato mezzo sbiadito. Credo che i cambiamenti climatici incidano molto e su queste pareti in particolare incidono gli sbalzi di temperatura tra inverno ed estate. La mia idea è che, se si continua di questo passo, molte salite dovranno esser sconsigliate. Ciononostante ho scovato comunque un paio di progetti nuovi da realizzare sul Piccolo Mangart”.
“Non siamo più abituati a queste rocce”, dice Benet
Per Benet il Mangart è la montagna di casa, la palestra di allenamento in ogni stagione. “Da giovane”, ricorda, “arrampicavo sempre qui perché non avevamo soldi per andare su altre montagne. Poi, quando è arrivato il “garellino” (motorino Garelli, ndr) abbiamo potuto visitare anche qualche altro gruppo. Comunque mi sono fatto le ossa proprio sulle vie di Ignazio Piussi, che era un punto di riferimento, un mito vivente. La prima è stata la Piussi Soravito assieme all’amico Graziano Vuerich: la scalammo facendo notte e durante la discesa verso valle ci venne incontro il Soccorso Alpino, che qualcuno aveva chiamato a nostra insaputa. L’allora capostazione Loris Savio, ci disse: “La prossima volta portatevi una sveglia” e ci suggerì, anzi ci impose, di entrare nel Soccorso Alpino. La Piussi al Piccolo Mangart l’ho ripetuta nel tempo sei volte, anche se delle prime salite non ho foto, dato che i soldi per comprare una macchina fotografica sono arrivati molto dopo. È una via che mi era venuta facile e ci ho portato ovviamente Nives quando l’ho conosciuta, poi un altro amico e poi c’è stata l’invernale, nel 1987 (la prima e a oggi unica ripetizione invernale, ndr). Sulle Giulie ci sono sempre stati tratti di roccia marcia, sul facile però. Più la via è verticale più la roccia in genere è buona. Nel complesso la Piussi al Mangart, dopo il Cozzolino, è la via del gruppo con la roccia migliore. Però è un itinerario dove devi lavorare molto di testa: ci trovi tanti appigli stondati e lisci, pochi chiodi: è “instabile”, è tecnica, la forza non ti serve più di tanto: devi avere testa, soprattutto per sostenere il disagio di quando hai il chiodo venti metri sotto di te. Alla Piussi sono tornato l’ultima volta una decina di anni fa con Nives e Marina Vuerich. Abbiamo fatto il primo tiro, prima di attaccare la Floreanini, che era l’obiettivo di quel giorno, e non mi sono più trovato bene, non ero più a mio agio e so anche perché. Negli ultimi anni abbiamo arrampicato tanto in Dolomiti e ho quindi perso l’abitudine alla conformazione della roccia delle Giulie e al diverso tipo di appigli e appoggi, che in Dolomiti sono perlopiù piatti e sicuri. Questo è uno dei motivi per cui la via di Piussi e le vie in Alpi Giulie in genere sono poco note e ancor meno frequentate. A parte il Diedro Cozzolino, dove spesso chi viene da fuori incappa in un bivacco in parete, gli unici a percorrerle sono soprattutto gli alpinisti sloveni”.
La descrizione della via redatta da Gino Buscaini nel 1971
Dalla relazione pubblicata da Gino Buscaini su Alpi Giulie. Guida dei Monti d’Italia 1971, p. 376
Piccolo Mangart di Coritenza, per il pilastro Nord S. Bellini. U. Perissutti, I. Piussi, 11-13 agosto 1962, dopo un tentativo nei giorni 9-10 agosto (inf. privata Bellini e Piussi).
Bella scalata logica e diretta, che supera arditamente il pilastro e gli strapiombi sotto la cima; la via non è stata ancora ripetuta. I suoi passaggi sono più duri di quelli della Lacedelli a Cima Scotoni e l’arrampicata è anche più libera di questa; tuttavia sul pilastro N vi sono già più tratti artificiali che sull’attigua via Piussi della parete (it. seg.). Secondo Bellini è più difficile e sostenuta della via Soldà alla Marmolada.
I posti da bivacco si trovano: sopra il pilastro basale e nella zona immediatamente superiore, nella caverna della fessura di sin., nel piccolo anfiteatro sopra la zona degli strapiombi.
Altezza 750 metri. Difficoltà: VI, A2. Chiodi lasciati: c. 70, quasi tutti nella parte superiore, nella zona degli strapiombi; usato 1 ch. a pressione, lasciato. I chiodi occorrenti sono i comuni orizzontali, a spatola lunga.
Melania Lunazzi
Articolo di piacevole lettura e molto circostanziato a livello tecnico con il contributo di alpinisti di alto livello. Utile ad eventuali ripetitori ma anche a far capire a tutti come possano cambiare le rocce e le dificoltà con il passare del tempo e a regolarsi di conseguemza. Complimenti a Melania Lunazzi.