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Basta nuove croci: Paolo Paci commenta la vicenda

Abbiamo chiesto al direttore di Meridiani Montagne di commentare la vicenda che in questi giorni ha investito il CAI.

La croce sulla cima del monte Resegone. Foto @ AdobeStock
La croce sulla cima del monte Resegone. Foto @ AdobeStock

Si è fatto un gran parlare di croci, ultimamente. Croci che stanno sulla cima delle montagne. Tutto è iniziato con una considerazione (condivisibilissima) di Marco Albino Ferrari, ormai ex direttore editoriale del Cai, a margine della presentazione di un libro sulle croci d’Appennino: stop a nuove installazioni, era il senso del discorso, per rispetto del paesaggio, della laicità delle montagne e del pluralismo di chi le frequenta.

Nessun accenno al fatto di togliere quelle già esistenti: anzi, il Cai svolge da sempre il compito di mantenerle e restaurarle. Considerazione seguita da comunicati improvvidi e disinformati di ben due ministri del governo di destra (“Dovranno passare sul mio corpo prima di togliere anche solo una croce” ha detto l’ineffabile Salvini: ma quando mai?). E da un’inelegante (e altrettanto disinformata) sconfessione di Ferrari da parte dell’attuale presidenza del Cai, non nuova a imbarazzanti pasticci. Risultato: dimissioni dell’onesto Ferrari, e di altri, e il solito putiferio di commentatori, alpinisti e non, che su ogni argomento un po’ divisivo si gettano come iene sugli avanzi dei leoni.

La polemica ci ricorda quella, anni orsono, sui crocifissi nelle aule scolastiche: ma è una polemica in sedicesimo e a tratti gratuita. Le croci di vetta, quelle storiche, meritano invece una narrazione più seria. Perché raccontano di uomini che ci hanno creduto, hanno faticato e speso del proprio per erigerle, spesso hanno compiuto vere e proprie imprese. Perché appartengono alla nostra memoria alpinistica, e non solo. La croce del Cervino, per esempio, eretta nel 1902, è entrata nella storia del costume e nell’immaginario collettivo attraverso due famosissime immagini: nel 1965, con Bonatti fotografato dall’elicottero al termine della sua scalata solitaria; nel 1976, con Mike Bongiorno e il Carosello della grappa Bocchino.

Nel bene e nel male le croci (ma anche i Cristi Redentori, le Madonne…) fanno parte della storia dell’alpinismo e della storia d’Italia. Raccontano di un’epoca in cui Stato e Chiesa, non ancora pacificati nel Concordato, si contendevano il territorio e il controllo delle coscienze. Ci ricordano vere e proprie epopee, come quella della Madonnina del Dente del Gigante più volte abbattuta dai fulmini, o l’altra Madonnina del Gran Paradiso portata in processione da don Pierino Balma, recordman di messe in alta quota.

Scaviamo nella nostra memoria: quante croci ricordiamo? Quanti ultimi passi, faticosi, gioiosi, sono terminati non con la vetta ma con la “croce di vetta?”. Sulla Doufour, sulla Marmolada, sulla Cima Grande. Croci che a volte sono l’unico indizio dell’arrivo in vetta (mi è capitato, nella nebbia totale, al Pizzo Stella come al Gran Zebrù: una croce, devo essere in cima!). Croci belle, croci (più spesso) brutte, grandi, piccole, umili, invasive. La scorsa estate mi sono trovato a poche settimane di distanza in vetta al Monviso e al Sassolungo: sul primo una pesante croce retorica attorniata da altre lapidi e monumenti, sul secondo due semplici tronchi inchiodati, sorretti da un ometto di sassi. Il primo un simbolo di potere, il secondo un segno del dolore e della fragilità umana.

Comunque siano, mi piacciono, quelle croci. Pur essendo non credente, vi riconosco la nostra storia, la “mia” storia. Quante volte in cima al Grignone, con la croce tramutata in scultura di ghiaccio. E quanti panorami dalla cima del Resegone, sotto la cui croce (con altarino) don Vittorio diceva messa…

Infine, pagato il necessario tributo al sentimentalismo e alla nostalgia, resta il sensato discorso dell’amico Ferrari. Basta con nuove croci, ce ne sono già a sufficienza e la società, la sensibilità collettiva, per fortuna, sono cambiate. Mi permetto di aggiungere una postilla. Basta con il ferro delle croci ma basta anche con il metallo di qualsiasi altro manufatto. Chiodi, spit, ferrovie, impianti di sci, elettrodotti, ponti tibetani, vie ferrate… Basta. Un giorno (non troppo lontano) le montagne in un sussulto si scuoteranno di dosso tutto questo peso, tutta l’umana vanità fatta di ferro, e torneranno a crescere e a collassare, a morire e a risorgere nell’incessante orogenesi che sempre tutto cambia. Ma per allora, l’uomo e i suoi simboli forse non ci saranno più.

Paolo Paci

 

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