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Un robot in viaggio sotto al Thwaites per scoprire come sta il ghiacciaio dell’Apocalisse

Se è soprannominato Ghiacciaio dell’Apocalisse, un motivo ci sarà. E il motivo è che se il ghiacciaio Thwaites (questo è il suo nome vero) dovesse sciogliersi, provocherebbe una reazione di proporzioni apocalittiche su tutta la zona circostante.

Il Thwaites si trova in Antartide ed è il ghiacciaio più grande del mondo, nel senso che è vasto più o meno come tutta la Gran Bretagna: si estende per 192mila chilometri quadrati e già oggi il suo scioglimento è responsabile di una percentuale significativa dell’innalzamento del mare circostante. Inoltre, il Thwaites è posizionato in modo da costituire una sorta di tappo che impedisce alla massa di ghiaccio alle sue spalle di finire in acqua.

Non sarebbe una cosa buona, se quel tappo saltasse. E per capire quando potrebbe accadere, un gruppo di scienziati del British Antarctic Survey e della Cornell University ha condotto nuovi studi sul ghiacciaio (pubblicati poi su Nature, “Suppressed basal melting in the eastern Thwaites Glacier grounding zone”) soprattutto utilizzando il robot acquatico Icefin, che per la prima volta ha raccolto dati e informazioni al di sotto della superficie.

Cosa succede sotto al ghiacciaio

In estrema sintesi, quello che è emerso è che l’acqua circostante (la cui temperatura è fra l’altro salita molto negli ultimi anni) si infiltra all’interno dei crepacci del ghiacciaio e provoca un trasferimento del sale all’interno, cosa che allarga ulteriormente le fratture e aumenta il rischio di collasso della piattaforma.

Icefin è stato inviato a circa 600 metri di profondità e a un paio di chilometri dall’area che separa il fondo della piattaforma dal fondale: i suoi sensori hanno rilevato la presenza di uno strato d’acqua più fresca che sarebbe in grado di rallentare lo scioglimento lungo le pareti del ghiacciaio. È per questo che i ricercatori, che fanno parte del progetto Melt, in cui USA e Regno Unito collaborano per il consorzio International Thwaites Glacier, hanno spiegato che lo scioglimento del ghiaccio al di sotto della piattaforma sarebbe più lento rispetto a quanto ipotizzato precedentemente, anche se il processo di riscaldamento risulterebbe “notevolmente più rapido” all’interno di crepacci e fessure.

Va bene, ma potrebbe andare meglio

Nonostante questo, uno dei due responsabili del team di ricerca, il professor Peter Davis, ha ribadito che “non dobbiamo pensare che il ghiacciaio non sia in pericolo”, ricordando che “quando un ghiacciaio e la sua piattaforma sono in equilibrio, il ghiaccio che si stacca dal continente corrisponderà alla quantità che si perde a causa dello scioglimento e del distacco degli iceberg”. Questo può decisamente dare il via a una reazione a catena, come dimostrerebbe il fatto che “nonostante piccole quantità di scioglimento, c’è ancora un rapido ritiro del ghiacciaio”, cosa che fa sì che “il rischio di frattura dell’equilibrio sia molto concreto”.

I ricercatori hanno anche ricordato che dalla fine degli anni Novanta, la zona tra la piattaforma e il fondale si è ritirata di circa 14 chilometri e che appunto l’oceano in questa parte del mondo è diventato più caldo e più salato, cosa che porta a un tasso di fusione di circa 2-5 metri l’anno.

La dottoressa Britney Schmidt, altra team leader della spedizione, ha spiegato che “questi nuovi modi di osservare il ghiacciaio permettono di approfondire lo scioglimento del ghiaccio non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche di capire quali fenomeni si stanno verificando nelle singole regioni” e che “conoscere le zone maggiormente vulnerabili è fondamentale per delineare strategie di intervento efficaci”. Iniziando da quello che sta sotto, a quanto pare.

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