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Vette, sviluppo sostenibile e donne. La Giornata Internazionale della Montagna del Vaticano e della FAO

Ci sono delle parole di fede che fanno breccia anche nel cuore dei laici. “«Laudato si’, mi’ Signore», cantava San Francesco d’Assisi. In questo bel cantico ci ricordava che la nostra casa comune è come una sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, e come una madre bella che ci accoglie tra le sue braccia”. Così inizia l’enciclica Laudato sì’, scritta da Papa Francesco nel 2015 e dedicata alla Terra. E ancora. “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”. “Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo”.

La Giornata Internazionale della Montagna, International Mountain Day in inglese, si celebra l’11 dicembre di ogni anno e, come tutte le ricorrenze simili rischia di dare vita a eventi scontati. Le parole del Pontefice argentino ricordate all’inizio dei lavori dal cardinale José Tolentino de Mendonça hanno dato un sapore diverso all’incontro Il messaggio delle montagne, che si è tenuto ieri, nella Casina Pio IV, sede dell’Accademia delle Scienze del Vaticano. A organizzarlo, insieme al Dicastero della Cultura ed Educazione della Santa Sede, è stata la Mountain Partnership delle Nazioni Unite, un programma portato avanti dalla FAO. Insieme a loro associazioni come la Giovane Montagna e il CAI, il progetto Guide Don Bosco en los Andes (Perú) e aziende private come Edison e Montura.

Quest’anno la Giornata era dedicata alle donne in montagna, e al loro “ruolo cruciale per la conservazione delle tradizioni, delle conoscenze e la protezione delle risorse naturali in tutti gli ecosistemi montani del mondo”. A portare il punto di vista femminile sono state tra le altre l’alpinista friulana Nives Meroi, prima italiana a salire i 14 “ottomila”, la giovane rifugista piemontese Giada Lora del rifugio Zum Gora in Valle Antigorio, la professoressa e alpinista reatina Ines Millesimi, autrice di un libro sulle croci di vetta dell’Appennino. La giovane guida andina boliviana Maria Teresa Llampa Vasquez ha inviato un videomessaggio.

Anche i saluti iniziali sono stati ricchi di contenuti. Il cardinale Tolentino de Mendonça, accanto alla Laudato si’, ha citato lo scrittore René Daumal (Il monte analogo) e il pittore Paul Cézanne. Monsignor Fernando Chica, osservatore permanente della Santa Sede presso la FAO ha ricordato che “dove rimangono le donne la montagna non muore”. Qu Dongyu, diplomatico cinese e Direttore generale della FAO, ha detto che “le montagne sono popolate da persone che vedono Dio da vicino”, e “sono importanti anche se viviamo in pianura”, e ha concluso citando la loro importanza per tutte le religioni del mondo.Laura Colombo, vicepresidente generale del Club Alpino Italiano, ha spiegato il ruolo delle donne nei progetti di cooperazione internazionale del CAI, da quello dedicato ai sentieri e alle montagne del Kossovo a quello promosso dal CAAI e da Mountain Wilderness nella regione pakistana dello Swat, dove 24 ragazze si preparano per diventare guide naturalistiche.    

Il primo dei due interventi-clou della giornata è stato affidato al professor Edwin Bernbaum, autore di libri sulle montagne sacre del mondo, e co-presidente del gruppo di lavoro dell’UICN sui valori culturali e spirituali delle aree protette. Nato a New York, oggi residente a San Francisco, da giovane ha vissuto e scoperto la montagna in Ecuador, e ha camminato in Nepal, in Cina e altrove. Nel suo intervento, Bernbaum ha parlato di montagne celebri come l’Everest/Chomolungma, il Monte Bianco, il Kenya e il Kailas, ma anche delle vette cinesi dello Hua Shan e dei San Francisco Peaks, in Arizona, sacri agli indiani Navajo e Hopi. Ha citato tra gli altri Milarepa e John Muir, ha parlato anche di Gerusalemme, la “città sacra a tre fedi che comprende due piccole montagne”. Il suo intervento è stato ancora più sorprendente perché pronunciato nella Città del Vaticano, ai piedi del busto di Papa Pio XI, quel monsignor Achille Ratti che ha legato il suo nome alla via normale italiana del Bianco, e che ha fatto del Casino Pio IV la sede dell’Accademia delle Scienze vaticana.

E’ partito proprio dalla scienza l’altro intervento principale, dello storico Marco Cuaz, docente all’Università della Valle d’Aosta. Dopo aver raccontato di “non essere un alpinista, ma di essere cresciuto tra gli alpinisti come tutti i valdostani”, ha spiegato di essersi accorto, anni fa, che “in tutte le storie dell’alpinismo, da Claire-Eliane Engel a Massimo Mila, mancava una pagina importante, quella del ruolo della Chiesa”. “I primi ad andare in montagna erano preti, scienziati, oppure preti-scienziati” ha proseguito Marco Cuaz, che ha raccontato la storia del vasto e variegato mondo dell’escursionismo cattolico italiano. Una storia che inizia con Georges Carrel e Leonardo Murialdo, secondo il quale “la natura è un libro di religione e di Dio”. Non abbiamo lo spazio per seguire l’intero ragionamento di Cuaz. Va sottolineato, però, il suo elogio dell’“alpinismo educatore” dei religiosi vissuti tra l’Otto e il Novecento, che “voleva allontanare i giovani dalle tentazioni e dall’osteria”. Un alpinismo intriso di prudenza, ispirato dall’abate Joseph-Marie Henry che esortava a “non sacrificare inutilmente la vita contro un pezzo di roccia e di ghiaccio”. Per lo storico valdostano, questo modo “pacifico” di andare in montagna ha resistito alla “deriva nazionalista e superomista” degli anni del sesto grado, nella Germania di Hitler e nell’Italia di Mussolini. Ed è stato sconfitto, invece, dalla “grande desacralizzazione della montagna” avvenuta nel secondo dopoguerra, negli anni della diffusione a macchia d’olio dello sci.

Gli impianti di risalita e le piste hanno preso il posto di vette e sentieri, la montagna è diventata una Disneyland, il divertimento ha sostituito la fatica. Soprattutto, spiega Cuaz, “lo sci, oltre a portare le masse in montagna, ha portato i soldi ai montanari”. Oggi il cambiamento climatico ha messo in crisi quel modello, e l’idea dei promotori di costruire nuovi impianti a quote sempre più alte si scontra con la ricerca di un modello alternativo. Qui, la voce dello storico ha lasciato il posto a quella del cittadino innamorato dei monti. “Le stazioni poco oltre i 1000 metri di quota sono state abbandonate, e i loro piloni saranno inghiottiti dalla vegetazione come i templi della Birmania” ha sorriso Marco Cuaz. L’unica alternativa possibile è fatta di sentieri, di escursioni, di cammini. “Il Novecento è stato il secolo dei giovani, della velocità e del rumore, il Duemila sarà il secolo degli anziani e della riscoperta della lentezza. Ma attenzione, perché questo modello funzioni, è essenziale che porti reddito e lavoro alla gente di montagna. Altrimenti, l’opinione pubblica nelle valli seguirà sempre i promotori di nuovi impianti”.

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