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Quanti danni fa il lupo agli allevatori? risponde un report dell’ISPRA

La recente pubblicazione, avvenuta la scorsa estate, dei dati sul monitoraggio 2020/2021 del lupo in Italia ha risollevato il dibattito sulla presenza del grande carnivoro nel nostro paese e sugli inevitabili danni che essa provoca alle attività economiche e umane. In un contesto di forte crescita della popolazione, soprattutto in ambito alpino dove il numero dei lupi è sostanzialmente raddoppiato rispetto alle precedenti misurazioni risalenti al 2017/2018, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale oltre ad aver organizzato e promosso la raccolta dei dati per la prima volta in maniera omogenea e coordinata a livello nazionale, ha avviato un più ampio lavoro di analisi delle problematiche sollevate dal predatore.

In particolare, il 14 novembre è stato pubblicato lo studio intitolato “Stima dell’impatto del lupo sulle attività zootecniche in Italia. Analisi del periodo 2015 – 2019” per fornire una prima analisi del numero di predazioni da lupo sugli animali da allevamento e una stima economica dei danni indennizzati agli allevatori. Si tratta della più esaustiva raccolta di dati effettuata a partire dalle informazioni ottenute da 17 regioni e 2 provincie autonome e 20 parchi nazionali che sono gli enti preposti all’erogazione degli indennizzi da predazione e quindi al censimento degli eventi predatori stessi. Naturalmente sono state escluse Sicilia e Sardegna, comprensive dei loro parchi nazionali, poiché non risulta alcuna presenza di lupi nel loro territorio.

I risultati

Da un punto di vista numerico il lavoro di Ispra racconta di 17.989 eventi di predazione complessivi pari a 3.597,2 di media all’anno e di 43.714 capi di bestiame indennizzati, per una media di 8.742,8 ogni anno. Tra i capi predati, l’82,0% erano ovicaprini, il 14,2% erano bovini e il 3,2% equini. Le somme concesse a titolo di indennizzo durante il periodo 2015-2019 sono risultate in totale pari a 9.006.997 € per una media di 1.801.367 € annui. Sulla totalità delle predazioni indennizzate, il 54,2% è stata attribuita al lupo, lo 0,6% al cane, il 16,8% genericamente al canide e il 28,4% risultava privo di attribuzione. Da sottolineare che gli eventi predatori, il numero di capi predati e l’entità degli indennizzi sono progressivamente aumentati nel periodo preso in esame, del 23,5%.

Problematiche della raccolta dati

Come sottolineano gli autori stessi della ricerca, le informazioni sulle predazioni e sul numero di capi predati devono essere considerate come stime minime per la tendenza di molti allevatori a non denunciare le perdite e per la vasta varietà di misure compensative – la Calabria non ne prevede, per esempio – che ciascuna regione applica all’interno del proprio territorio. Come si legge nel testo: «Nelle situazioni in cui i tempi di liquidazione dell’indennizzo sono particolarmente lunghi e le procedure complicate la strategia dell’indennizzo è assolutamente inefficace se non controproducente, perché mina la fiducia nelle Istituzioni con conseguente incremento dei casi di omissione delle denunce o addirittura di uccisioni illegali. Procedure complicate che prevedono la compilazione di numerosi moduli, difficili da reperire, e che richiedono l’invio di vari allegati a differenti uffici, contribuiscono a rallentare l’intero processo che perde di significato». Senza dimenticare l’ampia difformità nel sistema di accertamento dei danni e nelle sue tempistiche.

Le proposte

La ricerca realizzata da ISPRA rappresenta un fondamentale primo strumento per quantificare con metodologia scientifica l’entità delle problematiche che la presenza del lupo provoca alla zootecnia italiana. Sono queste le basi fondamentali da cui occorre partire per individuare soluzioni di coesistenza tra il lupo, cioè una specie particolarmente protetta, e l’allevamento, cioè un settore economico e produttivo importante per il presidio dei territori marginali del nostro paese e per preservare certi habitat particolarmente delicati e preziosi. In particolare consente di individuare i cosiddetti hotspot dove si concentra maggiormente il rischio di predazioni e dove, oltre alle misure di compensazione, andrebbe incrementato il lavoro di prevenzione per ridurre le predazioni e i danni.

Tuttavia, a detta degli autori stessi, rimane una fotografia documentata e scientificamente fondata, ma pur sempre parziale a causa delle politiche difformi e delle modalità fortemente ineguali di raccolta dei dati tra le diverse regioni e i vari parchi nazionali.

«Emerge una generale tendenza alla diminuzione degli allevamenti, che non è accompagnata dalla diminuzione del numero di animali registrati. Questo suggerisce un assorbimento dei capi da parte di allevamenti che aumentano le loro dimensioni e che, considerando quelli gestiti a pascolo estensivo, hanno maggiori difficoltà nell’adottare strategie di protezione dagli attacchi predatori. Parallelamente alla diminuzione degli allevamenti, si registra una tendenza all’aumento delle predazioni a scapito di un numero crescente di aziende, coerentemente con il processo di espansione della specie. È importante notare che la maggior parte delle aziende ha denunciato in media una sola predazione nel periodo di indagine (83% delle aziende bovine e 75% delle aziende ovicaprine), e che ad una minoranza di aziende (il 19%, 26% del totale) va attribuita ben oltre la metà dei capi predati (53%, del totale)».

In conclusione, un invito a tutti gli attori interessati dalla problematica, enti pubblici in primis, a incrementare la tutela del mondo zootecnico per migliorare la coesistenza tra lupi ed esseri umani e la qualità complessiva dei nostri ecosistemi.

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