Ambiente

Come si gestisce un bosco e perché è importante farlo

I boschi potrebbero dare lidea di essere un qualcosa di immutabile, ma non è così: sono costituiti da esseri viventi e quindi cambiano nel tempo, come noi. Nascono, crescono e muoiono, lunico modo per rapportarsi correttamente con loro è proprio capire come questo avviene, e come, soprattutto, possono rinascere. Se vogliamo che i boschi continuino a essere tra noi, fornendo benefici fondamentali per la nostra sopravvivenza, non potranno restare sempre uguali a sé stessi, ma subiranno anche loro leffetto del tempo. E delle azioni che compiamo noi. Ne abbiamo parlato con Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso lUniversità Statale di Milano.

Ultimamente ci accorgiamo un po di più dei cambiamenti che si verificano nei boschi perché in questo periodo risultano più visibili, a causa degli effetti della crisi climatica: gli incendi, la tempesta Vaia del 2018, la siccità di questanno… Vedere i boschi tutti marroni nel mese di agosto ci ha sicuramente fatto rendere conto che quello che sta succedendo non fa parte della normale fisiologia o del ciclo vitale delle piante, ma è legato a un effetto esterno molto pesante con cui anche i boschi – come noi – fanno fatica a stare al passo.

I boschi e il tempo

Nel nostro rapporto con il bosco la dimensione tempo è fondamentale. Ci collegano al futuro: qualsiasi azione svolta oggi esercita il suo effetto tra venti, cinquanta, a volte cent’anni. Possiamo assecondare, accelerare, accompagnare la crescita di un bosco – non contrastare perché non ci si riuscirebbe comunque – per orientarlo anche verso i benefici che può dare alla società. Se lo vediamo tutti i giorni potrebbe non apparirci cambiato, un po’ come quando si cresce un figlio. Se invece andiamo a trovare il bimbo di qualcun altro qualche volta, ci stupiremo dei suoi progressi, così come ci capiterebbe se tornassimo in un bosco trentanni dopo la prima volta. In generale, lo troveremmo più “grande”, o meglio più esteso: le foreste si stanno riprendendo, grazie alla spopolamento soprattutto nelle aree montane, quei territori che luomo tempo fa aveva strappato loro per farne pascoli, campi o prati.

In generale, più un albero vive velocemente, più è rapido il suo metabolismo, più cresce in fretta, meno a lungo vive. Sembra una legge universale che si applica a tutte le specie e a tutte le latitudini. Se pensiamo ai pioppi, che vengono piantati nella Pianura Padana proprio perché sono a rapidissima crescita, ci danno legno in poco tempo, in 15 anni diventano già alberi adulti, ma non vivono più di 80-90 anni. Al tempo stesso gli alberi che crescono molto lentamente o addirittura sono messi in situazioni tali da crescere poco – come in alta montagna, su terreni rocciosi, con freddo e neve per gran parte dellanno – sono campioni di longevità. Cè una conseguenza molto importante in questo, ed è legata al carbonio. Noi cerchiamo di far assorbire alle foreste più carbonio possibile per sottrarlo allatmosfera, vogliamo quindi accelerare la crescita delle foreste, piantare tanti alberi che crescano in fretta, perché abbiamo il pensiero di non avere tempo. Il problema è che tutte le foreste che crescono in fretta vivono poco, quindi quel carbonio che fine farà una volta che quel bosco arriva alla fine della sua vita naturale?

La resilienza del bosco

Lequilibrio nei boschi non è di tipo statico – come detto sono in perenne cambiamento – ma dinamico, con condizioni sempre mutevoli ma che stanno allinterno di una certa fascia, detta intervallo naturale di variabilità. Questultimo comprende anche alcuni eventi esterni che possono capitare al bosco: in fondo le foreste esistono da molto prima dellavvento della nostra specie, per cui hanno le risorse per reagire a incendi, fulmini, tempeste, uragani, siccità. Anche quando passa il fuoco non cè mai la distruzione totale, il bosco ritorna sempre, ma magari con tempi incompatibili con i nostri.

Questa capacità di reagire e adattarsi è stata selezionata dalla convivenza tra gli alberi e questo genere di eventi per lunghissimo tempo: se per centinaia di migliaia di anni sei esposto al pericolo di incendio, questo funziona da filtro evolutivo. Le mutazioni casuali che a ogni generazione di alberi compaiono verranno selezionate, lasciando solo quelle più vantaggiose per rispondere al tipo di ambiente in cui vivi. Per questo motivo, ad esempio, abbiamo specie mediterranee che sopportano bene la siccità: destate vanno in letargo, proprio perché da millenni in quella stagione manca lacqua, non potrebbero fare la fotosintesi e quindi hanno selezionato questo tratto di adattamento, o la capacità di far gettare nuovi rami da un fusto danneggiato dal fuoco o dagli erbivori, o di mandare in giro i loro semi cercando proprio zone recentemente denudate dal fuoco per poter germogliare meglio.

Quindi, se le piante sono in grado di reagire da sole, perché preoccuparsi? Il problema si verifica quando questi eventi escono dallintervallo naturale di variabilità. La crisi climatica spinge gli incendi a passare non più magari una volta ogni cento anni, comera sempre successo, ma una volta ogni trenta, venti o quaranta. Spinge le tempeste a non abbattere magari decine di ettari di foreste, ma migliaia in una stessa vallata. Questo cambiamento, se è troppo veloce, supera la capacità di adattamento. Le piante dovrebbero evolvere nuove soluzioni a questo genere di evento, ma ci vorrebbero migliaia di anni, mentre noi stiamo facendo cambiare le condizioni in pochi decenni. Questo è il punto di rottura dellequilibrio.

La gestione del bosco

Il bosco sta benissimo senza di noi, lo ha fatto per 400 milioni di anni senza alcuna difficoltà. Potrebbe aver bisogno del nostro aiuto solo nelle condizioni in cui siamo stati noi stessi a minacciarlo, a portarlo fuori equilibrio – come nel caso della deforestazione massiccia. Non è vero il contrario, però: il rapporto tra noi e i boschi è una relazione completamente asimmetrica, ne abbiamo bisogno. Senza di loro probabilmente non sopravviveremmo, basti pensare allossigeno, al sequestro dellanidride carbonica, al legno, alla carta, allacqua che viene purificata dal suolo forestale e arriva ai nostri rubinetti, alla protezione dal dissesto per chi abita o frequenta la montagna… Ci sono tantissimi benefici che noi ricaviamo da boschi sani e funzionanti e che faremmo fatica ad avere senza di loro. Ma proprio perché il bosco cambia, non è detto che abbia sempre le caratteristiche migliori di cui abbiamo bisogno in quel luogo – come, ad esempio, la protezione dalle frane, che potrebbe non esserci più se la foresta per un motivo o per laltro si dirada. Ecco che interviene, allora, la nostra mano. La gestione del bosco consiste nel dargli una struttura che sia quella migliore per i benefici che noi vogliamo ricavare: si tratta sempre e comunque di una prospettiva completamente antropocentrica.

Ma chi decide cosa vogliamo da un certo bosco? Ci sono moltissime persone che chiedono simultaneamente qualcosa a una foresta, richieste spesso anche in conflitto tra di loro. Cè chi vuole bellezza, paesaggio, un posto dove passeggiare in sicurezza, chi cerca animali da cacciare, funghi o castagne da raccogliere, chi ha bisogno di protezione dalle frane, chi vuole legno… Ognuna di queste cose viene fatta da un tipo di bosco un podiverso. La soluzione ideale sarebbe quella di coinvolgere nel decidere che tipo di foresta vogliamo tutti coloro che da essa vogliono qualcosa, di materiale o di immateriale. È quella che si chiama gestione partecipata, purtroppo ancora poco diffusa e soprattutto a livello solo sperimentale.

Ci sono comunque in generale due grandi criteri, ed entrambi guardano più a quello che si lascia nel bosco che non a quello che si toglie. Si tratta sempre di decisioni che vanno prese sul posto, osservando e leggendo il bosco. Il primo va a favorire la riproduzione: si selezionano le piante che stanno producendo semi più in salute e con la chioma più ampia e si lasciano nel bosco, in modo che possano far lentamente sostituire gli altri alberi che nel frattempo sono stati tagliati. Oppure, se sono già presenti le nuove generazioni di alberelli, si tolgono le piante – anche molto grandi – che ne ostacolano lo sviluppo. Laltro criterio si riferisce a una gestione che non avviene nel momento della riproduzione, ma in modo intermedio rispetto al ciclo di vita degli alberi. Se si pensa a un bosco giovane, formato da migliaia di piccole piantine, queste crescendo inizieranno a interferire luna con laltra, entrando in competizione per lo spazio e per la luce. Se si lasciasse sviluppare da solo il bosco questa competizione seguirebbe il suo corso: qualche pianta morirà, perché non ha accesso alle risorse, ma le altre, cercando di arrivare alla luce per prime, investiranno tutte le proprie forze nella crescita verso lalto, non verso i lati – perché non cè spazio – diventando così degli stecchini, meccanicamente molto fragili al vento. Per evitare di avere un bosco molto suscettibile a questo elemento, quindi, si può intervenire prima, operando un diradamento e selezionando gli alberi in base a quali sono i più adatti alle condizioni di quel luogo e all’uso che vorrò fare di quella foresta. Liberando spazio, gli alberi rimasti possono crescere più in fretta e più resistenti. Chiaramente, il taglio deve essere effettuato con un ritmo compatibile con quello del bosco: non si può mai togliere più di quanto riesca a ricrescere.

Quando un albero muore

Cosa fare con chi non ce la fa? Un secolo fa il legno aveva una grandissima importanza economica, era lunica fonte energetica, lunico combustibile per cucinare e scaldarsi, perciò tutti gli alberi morti, caduti o spezzati venivano rimossi. Oggi non è più così, ma è rimasta una forte repulsione culturale o estetica verso gli alberi morti: quando c’è un piccolo o un grande disastro la tendenza è comunque quella di togliere tutto, ripartire da zero, “pulire” come se fosse una cosa sporca.

Da ventanni, però, la scienza ci ha detto che togliere tutti gli alberi ritarda moltissimo la rinascita del bosco. Dopo che passa un incendio o una tempesta lhabitat è fortemente modificato, le eventuali nuove piantine che devono crescere dopo che qualcuno ha sparso i semi – che sia la natura o luomo – sono al sole, esposte agli elementi, trovano un terreno difficile perché spesso la sostanza organica è stata erosa dalle piogge. Sono condizioni un po estreme. Il fatto che ci siano delle piante, anche se morte, aiuta ad affrontare queste condizioni, poiché i tronchi per terra contrastano lerosione, trattengono un po il suolo, fanno ombra, migliorano lapporto di umidità e fanno da barriera nei confronti degli erbivori che vorrebbero raggiungere queste aree dove è presente erba nuova.

I boschi, però, hanno tutti un proprietario, se questultimo aveva un investimento e pensava di vendere quel legno è comprensibile e legittimo che voglia recuperare anche solo parte di quel valore. Si cercano, perciò, delle soluzioni di compromesso.

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