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Nel mondo nascosto delle grotte glaciali: il caso del ghiacciaio “gruviera” della Vallelunga

Un ghiacciaio viene definito come un accumulo di ghiaccio derivante da trasformazione per compattazione della neve, che scivola lentamente da monte verso valle, dal cosiddetto bacino collettore (zona di accumulo e trasformazione della neve) verso il bacino ablatore (zona in cui parte del ghiaccio si perde per fusione, sublimazione o crolli). Tale massa non è da immaginarsi totalmente compatta, in quanto al di sotto della superficie possono celarsi differenti tipologie di cavità. A studiare questo mondo sotterraneo e affascinante è la glaciospeleologia, come dice il nome stesso, una speleologia “applicata” ai ghiacciai. Una disciplina che ha mosso i primi passi a metà Ottocento, ha poi vissuto una fase di abbandono per decenni, prima di riprendere vigore negli anni Ottanta del secolo scorso. Oggi, con l’avanzare del cambiamento climatico, l’esplorazione glaciospeleologica si presenta come un prezioso strumento di analisi dello stato di salute di un ghiacciaio. A spiegarci cosa siano le grotte glaciali e portarci un esempio di ghiacciaio monitorato “dall’interno” è lo speleologo Andrea Benassi, tra gli esploratori della Vedretta di Vallelunga, ghiacciaio altoatesino in stato di ritiro, che nasconde sotto la superficie quella che ad oggi è ritenuta la grotta nel ghiaccio più lunga del versante italiano delle Alpi.

Domanda da non addetti ai lavori: ma le grotte non sono cavità fatte di roccia? 

Una grotta in generale è un vuoto in un substrato roccioso. Tale definizione, che non cita il ghiaccio, potrebbe mandarci in confusione. In realtà dal punto di vista del comportamento, il ghiaccio si può considerare come una roccia. Quando in un ghiacciaio l’acqua allo stato liquido scioglie per fusione termica il ghiaccio, è possibile trovare delle morfologie assolutamente simili a quelle che si trovano nelle grotte carsiche. E infatti si parla di crio-carsismo o carsismo glaciale. Nel dettaglio le grotte dei ghiacciai sono suddivisibili in 2 categorie principali: endoglaciali e subglaciali.

Può descrivercele in termini semplici?

Le grotte endoglaciali sono dei vuoti scavati dall’acqua nel ghiaccio, che presentano soffitto pareti e pavimento fatti di ghiaccio. La temperatura di tutto il sistema è zero. Sono anche dette mulini, che non hanno niente a che vedere con i crepacci (che non sono originati per fusione ma da fenomeni meccanici di distensione, nda). Le grotte subglaciali o di contatto sono invece grotte in cui l’acqua dall’esterno penetra sotto il ghiacciaio e quindi scorre sulla superficie rocciosa del ghiacciaio il cosiddetto bedrock. Sono dunque grotte posizionate alla base di un ghiacciaio, con un soffitto di ghiaccio ma un pavimento di roccia. 

Una volta formatesi persistono a tempo indeterminato?

Le endoglaciali “vivono” soltanto durante la fase estiva, nel periodo di ablazione e si richiudono durante il periodo invernale. Perché il ghiaccio si comporta sì come una roccia ma quando arriva a essere troppo pesante, sopra i 50/60 metri di spessore, diventa una sorta di materia plastica, come una melassa, e la sua pressione fa sì che un vuoto nel ghiaccio, se non compensato da una spinta dell’acqua, venga riassorbito molto rapidamente. I mulini sono dunque grotte effimere, in estate pieni d’acqua e quindi non percorribili, in cui è possibile scendere, e vedere cosa l’estate ha prodotto, soltanto in una finestra magica autunnale in cui comincia il rigelo notturno però la struttura ancora è aperta. Ogni anno si riformano in estate più o meno nello stesso posto.

Vanno interpretati come segnali preoccupanti?

Assolutamente no, non denotano un ghiacciaio che sta morendo.

Invece le grotte subglaciali?

Le grotte subglaciali possono perdurare ed essere considerate indicatori di una situazione di fragilità. Si formano soprattutto ai margini dei ghiacciai ad opera di acque di ruscellamento, che vanno a infilarsi sotto il ghiacciaio, come una spina nel fianco. E qui cosa succede, che in estate ma spesso anche in autunno, c’è un apporto di acqua liquida che non è più a una temperatura di fusione, ma superiore anche di molto a 0°C. Quest’estate sull’Aletsch un ramo laterale portava acqua a 13°C a 2600 m. Quest’acqua si infila sotto il ghiacciaio e tiene aperta una grotta di contatto. A differenza delle endoglaciali, le grotte subglaciali tendono a rimanere aperte più a lungo. Se l’energia termica è molto forte rischiano di rimanere aperte anche in inverno e non essere mai riassorbite. Nella stagione invernale non circola acqua ma si innesca una circolazione d’aria, che trasporta anch’essa energia termica, e quindi loro crescono, come una gruviera, minando dall’interno il ghiacciaio.

In tali grotte è possibile che si trovino anche dei laghi subglaciali, delle bolle di acqua liquida. Dall’esterno si ha l’impressione che il ghiacciaio sia integro, in realtà è minato al suo interno dalla presenza di grotte e sacche di acqua, che rimane allo stato liquido anche se la temperatura è 0,1°C. All’improvviso magari si rompe una diga e si genera una esondazione (i cosiddetti GLOFs). Il ghiacciaio vomita una enorme quantità di acqua e si affloscia. Questo è quello che succede purtroppo in questi anni in molti ghiacciai, anche a quote elevate, fino a 3000 metri. All’improvviso una lingua che sembrava integra collassa, ed è ciò cui abbiamo assistito a Vallelunga, sul versante italiano delle Alpi Venoste, dove tra il 2017 e il 2021 si sono verificati dei collassi di cosiddetti “calderoni glaciali”, sezioni di dimensioni notevoli, anche 150 metri di diametro, causati dalla sottostante presenza di reticoli di gallerie che da alcuni anni rimanevano aperte.

Il termine collasso rimanda alla mente le tragiche immagini della Marmolada. C’è da avere timore in Vallelunga?

Questa tipologia di ghiacciai carsici non è da considerarsi pericolosa. Nel senso che anche se collassano non creano conseguenze come in Marmolada, sono vallivi. A meno di trovarsi sulla sommità di un calderone glaciale al momento del collasso, e allora è proprio sfortuna, non generano valanghe di ghiaccio. Possono produrre altri effetti, come dicevamo i GLOFs.

Ipotizzando la possibilità di monitorare l’espansione di tali grotte, si potrebbe dunque riuscire a “predire” un eventuale collasso o un GLOF? 

Monitoraggi in tal senso già esistono. Le esplorazioni glaciospeleologiche nascono diciamo per passione, in alcuni casi si definiscono collaborazioni con le istituzioni, ma in generale soffrono della mancanza di risorse, non solo economiche ma anche in termini di tempo, persone. Si avvia una esplorazione, magari la si porta avanti per qualche anno poi per motivi disparati ci si ferma, ci si sposta, la continuità non è facile. In alcuni casi sono stati avviati dei progetti che monitorano con costanza ad esempio il Gorner, il più studiato dei ghiacciai alpini a livello glaciospeleologico. Idem sul Forni, ma sono situazioni rare, per farlo su tutti mancano le forze. E non è detto che tutti i ghiacciai possano essere esplorati dall’interno.

Purtroppo la glaciologia dall’esterno non ci dice come realmente si muove l’acqua nel ghiacciaio, non è facile elaborare un modello idrologico di un ghiacciaio. La glaciospeleologia, quando si è fortunati, può fornire uno sguardo dall’interno e aggiungere informazioni. Ovviamente dal vedere un reticolo ad agire per contrastarne lo sviluppo è tutt’altro discorso.

Nel senso che non si può fare nulla per “frenarne” lo sviluppo?

Sono fenomeni favoriti dall’innalzamento termico. Esattamente come un altro fenomeno, ancora più inquietante, che sono i drenaggi acidi o acid rock drainage.

Ovvero?

Un fenomeno nuovo, che sta venendo fuori in tutto il mondo, Antartide compresa, legato al ritiro del ghiacciaio ma anche alla riduzione del permafrost. Sulle Alpi troviamo superfici rocciose spesso molto ricche in minerali metallici, in quanto per la maggioranza sono rocce metamorfiche, di origine vulcanica (solo le Dolomiti sono sedimentarie), particolarmente ricche in solfuri. Questi solfuri, non appena scoperti dal ghiaccio, vanno incontro a ossidazione ad opera dell’ossigeno dell’acqua e dell’aria, e producono acido solforico che per fare un confronto, è quello delle batterie delle auto. Parliamo di un pH 2/3. Questo acido continua a sciogliere i minerali presenti nella roccia e produce dei cocktail paragonabili a ciò che può uscire da una acciaieria. Un cocktail di metalli pesanti – piombo, zinco, alluminio, rame, cromo etc. – tremendamente velenosi. Altro che altissima, purissima, ormai le acque di certi rami sorgentizi sono pericolose da bere. Alla base dei drenaggi acidi è bene evidenziare che vi sia un processo biochimico. La produzione di acido solforico può infatti essere accelerata dalla presenza di batteri estremofili, che colonizzano ambienti acidi. Il processo, una volta innescato, non solo procede con costanza, ma si autoamplifica.

Da quanto è stato scoperto l’acid rock drainage?

Si è iniziato a studiarlo negli ultimi 10 anni. Ad esempio, la provincia di Bolzano ha ripreso degli studi iniziati in Tirolo e sta avviando proprio in questi mesi un progetto di monitoraggio dei drenaggi perché rappresentano un problema per la fauna, per i microambienti a livello sorgentizio, ma anche in termini di gestione dei rifugi. Non sappiamo ancora comprendere la magnitudine del problema.

Nella zona di Vallelunga cosa avete notato in merito?

Abbiamo visto che in una parte del ghiacciaio, che da bianco è diventato nero, ricoprendosi di detriti e diventando un cosiddetto rock glacier, si conserva un cuore di ghiaccio, ma queste pietraie liberano continuamente drenaggi acidi. Ne consegue che una parte delle acque sorgentizie del rio che qui si origina, che rappresenta la parte alta dell’Adige, è a pH acido. In alcuni punti si toccano valori pari a 3/4. Poi questi valori tornano alla neutralità lungo il suo corso. I drenaggi acidi venivano studiati in relazione alle miniere abbandonate ma ora è evidente che vi sia anche una causa “naturale”, in quanto legato al riscaldamento globale e al deglaciamento. Un dubbio che ci è venuto, e non ci risulta esservi bibliografia utile a trovare risposta, è che anche tali drenaggi possano rivestire un ruolo nell’accelerazione, in alcuni casi, della fusione di un ghiacciaio. La produzione di acido solforico è una reazione esotermica, produce calore, quindi se ve ne fosse una quantità sufficiente, potrebbe andarsi a inserire tra i fattori in grado di scaldare dall’interno un ghiacciaio. Tutto è ancora da verificare.

Facciamo un passo indietro, da cosa nasce l’attenzione per il ghiacciaio di Vallelunga? Avevate notato qualche alterazione esterna?

I glaciospeleologi sono alla continua ricerca di ciò che non si sa. A livello bibliografico non siamo riusciti a trovare notizia di esplorazioni glaciospeleologiche condotte nel settore orientale delle Alpi, dunque siamo partiti dall’analisi delle immagini satellitari per valutare l’evoluzione delle zone negli ultimi 10/15 anni, e abbiamo notato che la Vedretta di Vallelunga era evoluta in maniera peculiare, con un collasso. Cercando ulteriori informazioni è venuto fuori che lo stesso gestore del rifugio Pio XI, che è anche guida alpina, si è reso conto negli ultimi anni della evoluzione della morfologia del ghiacciaio, e quindi abbiamo ritenuto opportuno andare a vedere cosa stesse accadendo.

E cosa avete scoperto?

Che al di sotto del ghiacciaio vi è un grande reticolo di gallerie, purtroppo e per fortuna, nel senso che è bello da esplorare ma è sintomo di un ghiacciaio in pessime condizioni. Un reticolo che mina la parte terminale del ghiacciaio, con uno sviluppo di 1 km, che continuerà a collassare. Gallerie che in buona parte restano aperte anche in inverno, accelerando il processo di fusione in quanto percorse da correnti d’aria che scavano durante l’inverno. Tramite queste analisi sul posto, le immagini satellitari e foto fornite dal rifugista possiamo dire a grandi linee come sia evoluto il ghiacciaio negli ultimi 4 anni e si nota come questo grosso reticolo sia andato incontro a collassi in alcuni punti per eccesso di vuoto. Il reticolo ha attualmente il primato di grotta nel ghiaccio più lunga dell’arco alpino nel settore italiano.

Al fondo di alcune gallerie abbiamo anche notato dei piccoli laghi subglaciali che hanno portato a ipotizzare, a monte del grande collasso, la formazione negli anni 2018/19 di un reticolo di laghi subglaciali, di medie dimensioni, che all’improvviso è collassato, svuotandosi. Il cedimento di un enorme anfiteatro (di circa 250 * 100 metri * 50/60 metri in origine di spessore, forse di più), pari a circa un milione e mezzo di metri cubi di ghiaccio, si sarà probabilmente accompagnato a un’onda di piena in valle.

E a monte il ghiacciaio come sta?

Resiste, presenta molti mulini fino a quota 2800 metri, ancora non esplorati per mancanza di tempo, ma torneremo.

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