Ambiente

Caldo e siccità, due nuove sfide al modello di sostenibilità dei rifugi

In alta montagna, più che in altri contesti, sembrano intravedersi i segnali di rinascita di una cultura insediativa in grado di riequilibrare il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, di riconoscere il valore d’uso delle risorse e le forme di socialità basate su cooperazione e condivisione“. Queste parole di Luca Gibello, Roberto Dini e Stefano Girodo comparivano nell’introduzione del libro Rifugi e bivacchi. Architettura, storia e paesaggio, edito da Hoepli nel 2018, sottolineando la valenza ecologica delle strutture d’alta quota, laboratori di sostenibilità inseriti in un ambiente fragile come la montagna, sentinella dei cambiamenti climatici.

Il caldo straordinario e la siccità estrema dell’estate 2022 sta oggettivamente mettendo in crisi questo modello, tra rifugi che chiudono a causa della carenza d’acqua, che si trovano costretti ad accendere i generatori a motore – trasportando spesso il carburante con l’elicottero – per supplire al calo di produzione delle micro centrali idroelettriche, che alimentano le cisterne con acqua portata da valle nelle autobotti, che ricorrono all’usa e getta per l’impossibilità di lavare le stoviglie. Nulla a che vedere con le città e le pianure dove milioni di persone sopravvivono grazie all’aria condizionata, con gli acquedotti e l’agricoltura in ginocchio. Ma l’ennesimo campanello d’allarme, assordante come una sirena, che solleva forti interrogativi sul ruolo degli esseri umani sulla terra, anche e soprattutto tra i frequentatori della montagna che osservano di anno in anno il degrado ecologico degli ambienti che amano.

Un passo indietro

Questa estate sto frequentando la montagna con il rispetto e la compassione che si dimostra nei confronti di un caro che sta morendo – attacca il discorso Luca Gibello che, oltre a essere storico dell’architettura e fondatore dell’associazione Cantieri d’Alta Quota, è anche un alpinista preparato – perché dopo le ultime salite in quota effettuate a maggio, sono stato preso dallo sconforto nel vedere lo stato dei ghiacciai. Preferisco rimanere alle altitudini più basse praticando attività più in sintonia con le condizioni della montagna“.

Cantieri d’Alta Quota è un’associazione che nasce nel 2012 per occuparsi di rifugi e bivacchi come realtà storiche, architettoniche, sociali, ma soprattutto come presidi culturali della montagna.

Il mio esordio non vuole essere un segnale di resa – prosegue Gibello – perché i rifugi di montagna devono continuare a essere un laboratorio di sperimentazione e di sostenibilità. Da questo punto di vista mi ha colpito il caso estremo della chiusura del rifugio Gonella provocata sia dalla carenza d’acqua, sia dall’inaccessibilità del ghiacciaio sulla via normale al Bianco. Lì il messaggio è chiaro: quella porzione di montagna non sostiene più la presenza degli esseri umani. Facciamo un passo indietro, torneremo in stagioni più propizie. Cambiamo le nostre abitudini in fin dei conti, adattandoci al contesto in cui ci troviamo a vivere. D’altronde la montagna ha sempre imposto il concetto di limite agli esseri umani, un insegnamento che dovremmo trasmettere alle città e alla pianura con maggiore forza“.

Fare il massimo con il minimo

Anche in chiave storica i rifugi, sin dalla loro comparsa nelle Alpi, hanno avuto un ruolo di presidio della montagna, per consentire agli alpinisti di avvicinarsi alle vette, pur nel rispetto degli equilibri dell’ambiente in cui erano inseriti. “Per molto tempo – prosegue Gibello nel suo ragionamento – costruire un rifugio significava fare il massimo con il minimo, cioè erigere una struttura più confortevole possibile con i materiali reperibili in loco. In una seconda fase, abbiamo vissuto la cosiddetta colonizzazione della montagna da parte della città che ha portato alla nascita di veri e propri alberghi di montagna. Finalmente, dagli anni ’90 del secolo scorso, la presa di coscienza della crisi climatica insieme alla nascita di movimenti ambientalisti tra cui Mountain Wilderness e un attivismo politico sfociato nella Convenzione delle Alpi hanno creato maggiore consapevolezza nella necessità di dare ai rifugi una più spiccata impostazione ecologica. È stato fatto moltissimo in questo senso, ma la congiuntura climatica, non certo provocata dalla montagna, ci ha superati e richiede misure ulteriori di adattamento“.

Dobbiamo rifuggire i paradossi della città

La nostra associazione – conclude Gibello – annovera progettisti di livello con cui discutiamo soluzioni concrete per adattare i rifugi, in maniera ecologica, ai cambiamenti che ci stanno travolgendo. Abbiamo osservato gli ottimi risultati registrati in Svizzera con le toilette a secco, vediamo che nella produzione di energia occorre integrare maggiormente l’idroelettrico con il fotovoltaico e ottimizzare il ciclo dell’acqua con il recupero delle acque grigie, per esempio. Sono aspetti tecnici che devono essere adattati alle singole realtà dagli esperti del settore. A me preme diffondere anche un discorso culturale che coinvolga tutti noi frequentatori della montagna. Quando saliamo in montagna per scappare dal caldo delle città, dobbiamo liberarci di preconcetti e abitudini che forse funzionano in pianura, ma certamente non sono sostenibili in un rifugio. Non pretendiamo di fare la doccia dove l’acqua è scarsa o di ricaricare lo smartphone dopo averci smanettato tutto il giorno. L’esperienza del rifugio ci può aiutare a scoprire l’essenzialità, un valore positivo che poi dobbiamo riportarci a casa quando torniamo a valle. E voglio lanciare un’ultima proposta concreta. Rendiamo i rifugi meno energivori aiutando i gestori a ridurre la quantità di cibo da conservare in frigoriferi e congelatori. Basta mettersi d’accordo con il rifugista: ognuno porta con sé qualcosa di fresco da consumare la sera stessa, riscoprendo anche la convivialità e la condivisione di spazi e abitudini. Per certi aspetti, il ritorno al rifugio dei primordi!“.

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2 Commenti

  1. Dice “Per molto tempo costruire un rifugio significava fare il massimo con il minimo, cioè erigere una struttura più confortevole possibile con i materiali reperibili in loco”.
    Ora non si vuole mai fare così, sarebbe poco appariscente e di poco vanto, ma non si fa soprattutto perché la gente penserebbe un poco prima di andare in un rifugio…. secondo me sarebbe soddisfatta di se stessa.
    Se fosse per me, tornerei a rendere tutti i rifugi, almeno quelli del cai, dei luoghi di accoglienza molto spartani, luoghi dove c’è solo l’essenziale: mura, tetto, branda, tavolo, panca, fuoco, magari luce, acqua e qualcosa da mangiare: più simili a baite che ad alberghi.

  2. ANCHE PER LE MONTAGNE VALE LA MASSIMA:

    “DAGLI AMICI (da alcuni almeno) MI GUARDI IDDIO CHE DAI NEMICI MI GUARDO IO”

    Gianni Sartori

    Mentre le calure estive schiantano (e non solo metaforicamente) a decine anziani proletari e lavoratori stagionali (e mentre una larga fetta di piccola media e oltre borghesia si rifugia in quota “al fresco”), un’esponente della destra italica che, a suo dire, tra i monti di Cortina si sentirebbe “a casa sua” (sentimento, mi auguro, non ricambiato dagli indigeni e dalla fauna e flora locale) ha emesso il verdetto definitivo, la classica “parola fine” sull’ambigua e lamentosa questione “spopolamento delle montagne”. Concetto spesso impropriamente e retoricamente evocato, a scopo finanziamenti, oltre che da interessati amministratori, operatori turistici e speculatori d’alta quota, da una miriade di soidisant “scrittori di montagna” (esiste anche l’associazione, quasi una lobby, mi dicono) che dai Monti , spettacolarizzando e mercificando, trae sostentamento.

    In realtà si dovrebbe piuttosto parlare dei rischi di sovrappopolazione in un ambiente non “fragile”, ma sicuramente “delicato” (nel senso di complesso, variegato, ricco di interconnessioni a livello di habitat, specie, clima… ) e quindi a rischio. Soprattutto pensando che tutti (quasi tutti?) usano l’auto, il fuoristrada, il suv e altro e per il territorio, per gli ecosistemi le conseguenze sono comunque devastanti.

    Oltre naturalmente al proliferare di seconde case, alberghi, rifugi-alberghi, strade, impianti di risalita, piste da sci (con illuminazione notturna), il bob olimpico… e una generalizzata cementificazione-deforestazione.

    Giusto un anno fa assistevo allibito ad un brutale taglio boschivo, una folta assemblea di larici ridotta in trucioli, destinati poi a qualche impianto per la produzione di energia “bio” (bio ?!?).

    Ufficialmente, mi spiegava il proprietario del bosco “xe sta Vaia”. Peccato che il bosco, come potevo ampiamente testimoniare, da “Vaia” all’epoca non fosse stato nemmeno sfiorato. Diciamo che l’astuto montanaro veneto aveva colto l’occasione (“ghe gaveva ciapà rento”) per specularci su.

    Ma con l’odierna richiesta di un aeroporto per Cortina (perché arrivarci su strada sarebbe “un calvario”) si è letteralmente toccato il fondo.

    Del resto questa pare sia la tendenza generale . Per gli straricchi senza vergogna (non solo i classici capitalisti naturalmente, aggiungiamo calciatori, attori, cantanti, politici, camorristi, nani e ballerine…) volteggiare angelicamente sopra le masse accaldate e puzzolenti sui sentieri (o magari in coda sui tornanti) è una questione di principio. Solo qualche giorno fa davanti a un rifugio CAI sulle Pale di San Martino sono atterrati un paio di elicotteri (il gestore aveva fatto allontanare preventivamente gli escursionisti raccomandando di riprendersi magliette e canotte stese ad asciugare perché altrimenti sarebbero volate via) da cui scendevano, in ghingheri, due vispe comitive di turisti che qui avevano prenotato il pranzo. Dopo un lauto pasto e abbondanti libagioni erano ripartiti senza nemmeno sgranchisti le gambe e senza mischiarsi con le prosaiche masse appiedate. Rifugio CAI, sottolineo.

    Quanto alla recente “tragedia annunciata” della Marmolada (più che un “campanello” una sirena, l’ennesima, d’allarme) presumibilmente (siamo pur sempre nella Società dello spettacolo dove lo spettacolo si fa merce) alimenterà il turismo, almeno quello dei voyeurs (vedi sul Vajont, vedi, anche se in forma minore, Stava e Cermis…), ma forse non contribuirà abbastanza, non quanto dovrebbe, allo sgretolamento dell’antropocentrismo capitalista applicato al turismo e dei suoi inevitabili corollari (mercificazione, sfruttamento,spettacolarizzazione etc. vedi sopra).

    A titolo di parziale consolazione (e lo dico magari a mio svantaggio, in quanto escursionista che dalla pianura risale in treno e corriera e poi si sposta rigorosamente solo a piedi), almeno da ‘ste parti (Vette Feltrine e dintorni), vanno dilagando zecche et similia. Scoraggiando una eccessiva frequentazione di boschi, prati e brughiere.

    Gianni Sartori

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