Alpinismo

“Un giorno senza montagna è un giorno perso”. Intervista a Franco Nicolini

“Mi rattrista sapere che quando arriverà quel giorno non potrò più godere di questi scenari”. Apre così la nostra chiacchierata Franco Nicolini che raggiungiamo al telefono mentre si prepara per uscire a godere di una fresca giornata tra le sue montagne. “Ogni giornata che passo senza andare in montagna me ne faccio una colpa” spiega divertito. Penso che sarà l’ultima alba vissuta da Cima Tosa o da Cima Brenta ad accompagnare lo spegnersi della mia vita. Forse per una forma di egocentrismo, ma in fondo tutti gli alpinisti lo sono. Ammetterlo è già un passo avanti”.

Si scrive da sola questa intervista. Franco ha la saggezza dell’età adulta dalla sua e sa bene cosa vuole comunicare. Vuol parlare della sua passione per la montagna e per l’alpinismo. Quella quasi innata, scoperta semplicemente vivendo il territorio di casa. Quella che l’ha portato in giro per le Alpi, prima, e nel mondo, dopo. Dalle gare di sci alpinismo, al concatenamento degli 82 Quattromila delle Alpi, fino alla nascita del progetto Los Picos che l’ha visto salire tutte le vette di 6500 metri delle Ande. Senza dimenticare Cho Oyu, Broad Peak, Shisha Pangma e Manaslu. Un curriculum, che si arricchisce ogni giorno di nuove salite per una passione senza freni e confini.

Franco, come nasce questa tua passione smodata per la montagna?

“Per molti che come me sono nati ai piedi delle montagne, in un tempo dove le ricchezza era contata, tutto è iniziato con le vacanze in famiglia. Andare a camminare non costava e non costa nulla, è gratis.

Noi eravamo 7 fratelli, solo mio padre lavorava e per lui era pratico farci scoprire la montagna attraverso le sue capacità. Ricordo che andavamo spesso per sentieri, ma la vera esplosione di quella che poi è diventata una passione irrinunciabile nasce un giorno in Paganella. Da Lavis, partiva la funivia direttissima che in 10 minuti portava in cima. Erano gli anni Settanta e qui andavano ad allenarsi i trentini con Cesare Maestri, Carlo Claus e altri nomi che hanno fatto la storia delle montagne del mondo. Li vedevo arrampicare tutti i giorni, fin quando un giorno uno di loro mi ha proposto di provare. Da quel momento non ho mai smesso di ripetermi ‘anche io voglio fare come loro’.”

Quando hai deciso di diventare guida alpina?

“Fino ai 17 anni la mia attività è stata molto sporadica, con qualche arrampicata, qualche normale sul Sella e sul Catinaccio. Sul Brenta non andavamo quasi mai, perché avevamo timore delle sue difficoltà. Un giorno del 1979 poi, un amico con una decina di anni in più mi ha introdotto al mondo delle invernali. Ricordo ancora la sua frase: ‘se vogliamo diventare bravi, dobbiamo fare una via in inverno’. Siamo partiti in 4. Ero vestito con i calzettoni della mamma, i pantaloni a zuava e ho subito il primo congelamento ai piedi. Lì è scoccata la scintilla e ho capito che avrei fatto in modo di trasformare la passione nella mia vita. Ne 1981 poi, dopo gli anni da militare, sono diventato aspirante guida e poi guida.”

Oggi la tua vita guarda spesso alle Dolomiti di Brenta, dove gestisci il rifugio Pedrotti. Si può dire che ne sei il nuovo custode?

“Lo dicono in molti e ne vado molto fiero, è un titolo importante. Da parte mia posso solo dire che mi piace preservare queste montagne, difenderle dalla tecnologia, dagli assalti che ogni tanto il turismo montano tenta di studiare e progettare. Mi piace ricordare quelli che hanno lavorato alla creazione della Via delle Bocchette, un sentiero attrezzato studiato per incrementare il turismo di montagna ma realizzato con consapevolezza. Quando l’hanno messo a punto si sono detti: le Bocchette le facciamo per gli escursionisti bravi, ma le cime le lasciamo ai più bravi e non facciamo salire nessuna ferrata fin sulla vetta.

Ancora oggi quando qualche gruppo capita da me in rifugio e mi dice di aver lasciato una corda fissa sulla Cima Tosa non dico mai nulla, ma dieci minuti dopo averli salutati sono già su che smonto la corda. Il bello del Brenta è che si può ancora trovare dell’avventura, anche lungo le vie normali e a me piace preservarle così come sono.”

Veniamo però ai progetti che hai realizzato. Uno di quelli di maggior respiro è stato il concatenamento degli 82 Quattromila nel 2008, come ti è venuta l’idea?

“Il concatenamento degli 82 Quattromila, realizzato con Diego Giovannini, è un progetto che sento molto mio. Ueli Steck è venuto sulle nostre orme, inseguendo anche lui la filosofia di un movimento pulito. Ed è proprio stato questo il bello di questa realizzazione. Negli ultimi tempi sono stato contattato da due ragazzi tedeschi che vorrebbero rifare il concatenamento, l’unico suggerimento che mi sono sentito di dargli riguarda lo stile. Il tempo e gli orari contano poco, il modo in cui fai le cose rimane. Per me quella degli 82 Quattromila è stata un’esperienza bellissima su cui ho investito 3 anni di vita. Organizzare la logistica, creare un itinerario che avesse senso e che facesse risparmiare tempo e chilometri. È stato meraviglioso in ogni fase, dal sogno alla realizzazione effettuando gli spostamenti in bici o a piedi senza usare funivie. Un modo per tornare alle origini, per dare un valore aggiunto.”

Anche un moto di sostenibilità…

“Oggi è fondamentale, come ho imparato durante le mie esperienze sugli Ottomila. Durante queste spedizioni ho visto ossigeno, elicotteri che vanno e che vengono. Dobbiamo ricordare che nessuno ci obbliga ad andare in montagna, lo facciamo per goderci la giornata e vivere un’avventura. Altrimenti che senso ha?”

Qualche aiuto facilità l’avvicinamento di nuovi appassionati, non trovi?

“Sul Brenta, come in altre zone, sono state attrezzate le vie normali con chiodi fissi. Così questi itinerari storici stanno tornando a essere frequentati, prima si vedevano poche persone su per quei tracciati. Sicuramente bello vedere itinerari di così grande respiro essere nuovamente tra gli obiettivi degli appassionati, ma è diverso. Prima c’era più avventura.”

Cosa significa per te avventura?

“Rispondo con un esempio. Ho partecipato a due spedizioni in Cina, due momenti esplorativi in una zona remota e poco battuta. Pensare di muovere un passo e dire, ‘sono il primo a farlo’, fa venire la pelle d’oca. Oggi è sempre più difficile ritrovare una sensazione del genere, ma non è impossibile. Ecco, per me è questa l’avventura.”

Un’ultima domanda: come coniughi questa tua smodata voglia di outdoor con l’attività in rifugio?

“Questa è una bella domanda, ma la risposta arriva proprio dal rifugio. Quando 10 anni fa ho deciso di prendere il Pedrotti con la mia famiglia sapevo che sarebbe stata la giusta opportunità per poter stare in montagna in modo professionale e poter godere della montagna in modo amatoriale. Una parte del tempo libero viene ovviamente assorbita dall’attività, ma non c’è giorno in cui non ci si goda l’ambiente incredibile in cui ci troviamo. Non c’è giorno senza alba o tramonto a scaldarci il cuore. La soddisfazione più grande è che tutti siamo contenti di stare su.”

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Un commento

  1. Insomma, se una parte del tempo libero viene assorbita dalla gestione del rifugio, una polenta da girare , una mano in cucina o camere o in altre faccende ordinarie bisogna pur darla.

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