News

Scienziati pronti a riportare in vita il mammut per salvare il permafrost

La fantascienza, secondo la definizione che ne fornisce l’Enciclopedia Treccani è un “genere letterario, estesosi poi al cinema, in cui l’elemento narrativo si fonda su ipotesi o intuizioni di carattere più o meno plausibilmente scientifico e si sviluppa in una mescolanza di fantasia e scienza”. L’espressione “più o meno plausibilmente scientifico”, argutamente inserita in tale definizione degli esperti, ci insegna a non leggere un libro o guardare un film di fantascienza nella piena convinzione che simili situazioni non possano, un giorno, verificarsi per davvero. L’evoluzione delle tecnologie, più lenta della fantasia degli autori, a distanza di decenni porta alcune soluzioni fantascientifiche a diventare scientifiche.

É il caso di Jurassic Park, capolavoro nato dalla penna di Michael Crichton e riadattato in veste cinematografica da Steven Spielberg, che ci ha fatto sognare negli anni Novanta un mondo popolato da dinosauri, riportati in vita grazie a elaborate tecniche genetiche. Ebbene, dagli USA giunge notizia che i tempi siano sufficientemente maturi per iniziare a pensare seriamente a riportare sulla Terra animali preistorici.

Non solo sarebbero già disponibili le tecnologie idonee – quelle anzi, già da un po’ sono note – ma vi sarebbe anche un bel mucchio di soldi pronti per essere investiti in una operazione fantascientifica. Non si parla di dinosauri ma di mammut, che nella nostra ignoranza infantile, ammettiamolo, abbiamo considerato a lungo coetanei. In realtà l’estinzione dei dinosauri si stima sia avvenuta attorno a 65 milioni di anni fa, nel Cretaceo, mentre i primi mammut, i cui resti sono stati ritrovati in Sudafrica, risalgono a soli 5 milioni di anni fa.

Il protagonista del progetto di cui stiamo per parlarvi è in realtà ancora più giovane. Si tratta infatti del mammut lanoso, vissuto tra 200 mila e 5 mila anni fa circa, in quella che definiamo Era Glaciale, evolutosi a seguito delle migrazioni dei progenitori africani verso il Nord dell’Europa, dell’Asia e dell’America, grazie allo stretto di Bering totalmente ghiacciato. Il mammut lanoso rappresenta la tipologia di mammut più adatta a sopravvivere in ambienti estremi, grazie a una corporatura tozza, uno spesso strato di grasso cutaneo, una folta pelliccia, padiglioni auricolari ridotti e zanne fortemente ricurve che consentivano di spostare agevolmente la neve alla ricerca di erbe coriacee della tundra, che riusciva a masticare grazie alla forte dentatura. In termini dimensionali, non era molto più grande dell’attuale elefante africano.

Riportare in vita il mammut lanoso per salvare il permafrost

Di recente l’azienda di biotecnologie statunitense Colossal ha dichiarato di aver ricevuto un finanziamento di 15 milioni di dollari da parte di investitori della Sylicon Valley per tentare di realizzare un progetto in grado di riportare in vita il mammut lanoso. Un obiettivo ardito che sarebbe possibile raggiungere mediante applicazione della tecnica di ingegneria genetica CRISPR.

“L’umanità non è mai stata in grado prima d’ora di sfruttare il potere di questa tecnologia per ricostruire ecosistemi, guarire la nostra Terra e preservarla per il futuro, attraverso ripopolamenti con animali estinti”, ha dichiarato Ben Lamm, CEO della Colossal, evidenziando scopo nobile del progetto: preservare gli ambienti artici.

Ripopolare l’Artico, secondo Lamm e i suoi colleghi, potrebbe contribuire a preservare il permafrost, e di conseguenza ridurre le emissioni di anidride carbonica derivanti dal suo progressivo scioglimento. Accanto a una funzione di concimazione del suolo e dunque alla possibilità di portare a una reviviscenza delle praterie artiche, i mammut potrebbero contribuire con il loro calpestio a spingere in profondità nel permafrost neve e ghiaccio, facilitando il mantenimento di temperature più basse.

La dimostrazione pratica di quanto il ripopolamento delle zone artiche possa essere funzionale alla conservazione degli habitat nonché alla mitigazione dei cambiamenti climatici giunge dal Parco del Pleistocene, fondato da Serghei Zimov, geofisico tra i massimi esperti russi di permafrost nella Yakutia. Zimov ha avviato questo esperimento nel 1996, senza usare mammut ma cavalli Yakut, alci, renne, pecore, buoi e altri erbivori.

Un ibrido mammut-elefante

Come spiegato dal genetista di Harvard George Church, cofondatore dell’azienda, in realtà ciò cui si mira è la creazione di un ibrido tra l’attuale elefante asiatico e l’antico mammut lanoso. Due specie i cui genomi corrispondono al 99,9%.

Per comprendere il concetto è necessario definire in cosa consista la tecnica CRISPR. Non si tratta di un elisir in grado di riportare in vita mammiferi defunti ma di un sistema di editing genetico. CRISPR sta per Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, denominazione che deriva dal fatto che il sistema sia basato su proteine (CAS9), che agiscono come forbici ad alta precisione sul DNA, andandolo a tagliare in specifiche posizioni, sotto la guida di una breve sequenza di RNA. Di norma il DNA tagliato viene aggiustato dai naturali meccanismi di riparazione della cellula. Ma gli scienziati possono sfruttare questo meccanismo per introdurre dei segmenti di DNA a piacere. Ecco che forse si chiarisce così il proposito di Colossal: introdurre pezzetti di DNA di mammut nel genoma dell’elefante. Ovviamente non a caso, ma allo scopo di fornire all’elefante geni utili a sopravvivere nelle condizioni estreme dell’ambiente artico.

Il primo passo per arrivare alla condizione attuale è stato il riuscire a sequenziare il genoma del mammut lanoso. Obiettivo raggiunto grazie alla sempre crescente disponibilità, a causa dello scioglimento del permafrost, di reperti ben conservati. Mediante sequenziamento sono stati identificati circa 60 geni che si ritengono idonei a trasformare l’elefante asiatico in uno pseudo-mammut, legati ad esempio al pelo e ai depositi di grasso.

Il taglia e cuci così descritto non è certo semplice. E le difficoltà (e i limiti) che si potrebbero incontrare nell’applicazione della CRISPR sugli elefanti verrebbero evidenziate solo in corso d’opera, analizzando eventuali anomalie sugli embrioni ibridi. Embrioni che, essendo l’elefante asiatico una specie a rischio, dovrebbero andare tra l’altro incontro a gestazione in uteri artificiali.

Limiti etici ed economici

Date le difficoltà sperimentali e le incertezze presenti, il progetto possiamo dire che sia ancora lontano dall’essere messo in pratica. Ci sono inoltre alcune ulteriori riflessioni da fare.

Ricorderemo tutti la pecora Dolly, frutto di un tentativo di clonazione che sollevò aspre critiche sul fronte della bioetica. Anche il progetto di Colossal non manca e non mancherà di sollevare polemiche in tal senso. Anche qui “si gioca a fare Dio”.

C’è anche chi evidenzia che i soldi spesi, per non dire buttati, per simili tentativi, si potrebbero meglio investire nella protezione di specie a rischio estinzione.

Un ulteriore problema non secondario, evidenziato dai contrari al progetto, è che la “resurrezione” di specie antiche potrebbe anche portare allo sviluppo di nuovi virus, che potrebbero diventare trasmissibili all’uomo (e sappiamo bene quali siano le conseguenze).

Tags

Articoli correlati

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Back to top button
Close