Ambiente

Scoperti nei ghiacci del Tibet antichi virus sconosciuti alla scienza

In piena pandemia, in una fase in cui la corsa ai vaccini cerca di contrastare la diffusione di nuove varianti del Covid-19, per certo spaventa più del solito la notizia, circolata nelle ultime settimane, della scoperta di ben 33 virus, di cui 28 finora sconosciuti alla scienza, intrappolati da circa 15.000 anni nei ghiacci del Tibet. Cerchiamo di fare chiarezza a riguardo e comprendere se sia il caso di temere questi antichi virus “portati alla luce” dagli scienziati.

Non esiste (quasi) angolo di Terra privo di microrganismi

Iniziamo col dire che non ci sia certo da stupirsi se, dall’analisi del ghiaccio in aree remote del Pianeta, venga rivelata la presenza di microrganismi (intendendo con tale termine, ci perdonino i puristi, batteri, lieviti e virus). Il paper che descrive la scoperta dei 33 virus tibetani – “Glacier ice archives nearly 15,000-year-old microbes and phages”, pubblicato di recente sulla rivista scientifica Microbiome – non è certo unico nel suo genere. Se però, studi volti a identificare in ambienti glaciali la presenza di specie batteriche vengono condotti da almeno un decennio, e dunque la letteratura in merito è abbastanza estesa, più recenti e in numero minore a causa di una maggiore complessità di analisi, risultano essere gli studi dedicati ai virus preservati nel ghiaccio.

“I primi report di presenza microbica sui ghiacciai risalgono a inizio XX secolo – si legge nel paper – ma sono stati ampiamente ignorati fino agli anni Ottanta quando si è intrapresa una indagine nelle profondità del lago Vostok (lago subglaciale che si trovano sotto la calotta di ghiaccio dell’Antartide, nda)“. I risultati di tali studi, pubblicati sul finire degli anni Novanta, hanno rivelato concentrazioni abbastanza esigue di microrganismi negli strati profondi del ghiaccio (102-104 cellule per ml), significativamente inferiori alle concentrazioni rilevabili nell’acqua marina o nel suolo.

Elemento interessante è che questi microrganismi oggi intrappolati nel ghiaccio, in tempi lontani devono essersi depositati sulla superficie, trasportati per via aerea, quindi conoscerli e poter datare la loro presenza (comprendere in sintesi da quanto stiano lì) diventa un importante tool scientifico per conoscere il passato microbico di quella determinata area della Terra. Il loro studio aiuta in sintesi a ricostruire passate condizioni climatiche e ambientali, “archiviate” nel ghiaccio. Informazioni importanti per gli scienziati per prevedere i futuri scenari legati al cambiamento climatico.

“In termini tassonomici – prosegue il paper – nelle carote glaciali dominano i Proteobacteria, Actinobacteria, Firmicutes e Bacteroidetes”. In molti casi è stato possibile coltivare i batteri a partire dai campioni prelevati e in un certo senso risvegliarli da un sonno se non eterno, molto lungo, indotto dalle temperature sottozero. Si stima che alcuni dei microrganismi siano rimasti, perlopiù in forma di spore, per oltre 750.000 anni nelle profondità del ghiaccio.

Quanto è difficile studiare i virus!

I batteri, come anticipato, sono “facili” da analizzare con metodi colturali e non, ad esempio mediante sequenziamento genico. Con i virus le cose si complicano. Si contano sulle punte delle dita gli studi effettuati in ambiente glaciale. Una prima ricerca ha rilevato la presenza del virus del mosaico del pomodoro in un campione di ghiaccio della Groenlandia risalente a 140.000 anni fa, utilizzando la rt-PCR. Una seconda ricerca ha rilevato invece la presenza di cosiddette VLPs (virus-like particles ovvero particelle che sembrano virus ma non contengono genoma) sempre nelle profondità del lago Vostok, utilizzando la microscopia a trasmissione.

Molto interessanti sono studi recenti condotti nell’Artico sui fori di crioconite, ovvero potremmo dire delle vaschette contenenti acqua di fusione che si ritrovano sulla superficie glaciale, che hanno portato gli scienziati a rivalutare la presenza virale in ambienti estremi. Sono infatti state identificate concentrazioni di VLPs pari a 108-109 per grammo di sedimento. Ovviamente stiamo parlando di presenza superficiale di virus, ma come anticipavamo per i batteri, un tempo quei virus oggi immagazzinati nelle profondità glaciali dovevano essere in superficie. Quanti e chi fossero è la domanda cui sta cercando di rispondere la scienza, superando i limiti incontrati finora nello studio dei “virus glaciali”, rappresentati principalmente dalla limitata biomassa dei campioni, da sottoporre a studi di metagenomica, e l’alto tasso di contaminazione del campione da parte di microrganismi presenti sulla superficie del medesimo, che spesso avviene quando questo viene sciolto per essere sottoposto a studi microbici.

Il team USA, coordinato dal microbiologo e paleoclimatologo Zhi-Ping Zhong della Ohio State University, è riuscito a superare tali ostacoli, unendo procedure di pulizia accurata dei campioni ad approcci di metagenomica su campioni a bassa concentrazione di biomassa, trovando risposta alla domanda, con riferimento specifico al Guliya Ice Cap, nella porzione più occidentale dell’altopiano tibetano.

Chi sono i 33 virus tibetani?

Rispondiamo subito alla domanda che serpeggia dall’inizio di questo articolo: non è stato riportato “in vita” alcun virus letale. I ricercatori hanno sottoposto ad analisi metagenomica due campioni di ghiaccio, prelevati rispettivamente sulla sommità (6710 m) e sul plateau (6200 m) del Guliya Ice Cap: uno risalente a 355 e uno a 14.400 anni fa. Ne hanno studiato componente batterica e virale.

Concentrandoci sulla seconda, sono stati in grado di identificare 33 vOTUs (unità tassonomiche). Più nel dettaglio 28 si sono rivelate essere generi non noti finora alla scienza e nessuna vOTU è stata ritrovata in alcuno dei 255 viromi posti a confronto (un ampio range di ambienti, dai deserti agli oceani, dal Mar Glaciale Artico ai laghi, alla crioconite). Non c’è da stupirsi neanche su quest’ultimo punto. Stiamo parlando di virus rimasti immagazzinati nel ghiaccio per millenni, mentre il mondo intorno cambiava, evolveva, e il dataset di confronto fa riferimento ad ambienti attuali.

Particolare da evidenziare, per allontanare ogni eventuale timore residuo: da confronti genetici, i ricercatori hanno concluso che i virus immagazzinati nelle profondità del Gulya Ice cap fossero presenti un tempo nel suolo (nei batteri del suolo, a essere precisi) o nelle piante, non a trasmissione dunque animale o umana. In riferimento ai fagi, virus che infettano batteri, cui appartengono i 5 virus già noti per genere alla scienza, i ricercatori hanno dedotto da test di laboratorio che questi fossero in grado di trasmettere agli ospiti dei geni metabolici ausiliari per consentire loro di sopravvivere più agevolmente in condizioni ambientali proibitive, quali freddo e alta salinità. Un bel gioco di squadra, che ci fa rivalutare la visione pessima che abbiamo in generale dei virus. Questi piccoli involucri proteici contenenti del genoma, rappresentano un mondo invisibile e complesso.

Sapete qual è il rammarico maggiore? Che proprio ora che la scienza inizia – questo paper ne è la dimostrazione – a capire come studiare i virus antichi immagazzinati nelle profondità dei ghiacciai e dunque ricostruirne il passato in termini ecologici, viene meno ciò che è indispensabile per tali studi: i ghiacciai.

Altra riflessione che sorge spontanea è che, come conseguenza dello scioglimento dei ghiacciai, virus e batteri antichi potrebbero tornare alla luce senza necessità di carotaggi. Quanti? Chi? Tra di loro potrebbero esserci virus per noi pericolosi? Sono domande da sfruttare come stimolo per impegnarci nel mitigare gli effetti del global warming.

Microrganismi spaziali

Sperando da un lato di poter essere più veloci del cambiamento climatico nell’analizzare le comunità batteriche e virali dei ghiacciai del mondo, gli scienziati evidenziano che i nuovi protocolli di estrazione di materiale genomico batterico/virale da campioni prelevati in ambienti freddo secchi d’alta quota, come l’altopiano tibetano, possano aprire la strada all’analisi microbiologica di campioni provenienti da ben più lontano della Terra, come le regioni polari di Marte. O perchè no, altri mondi ghiacciati del nostro Sistema Solare.

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