Montagna.TV

Addio ad Antonio Pennacchi, l’uomo di pianura che ha saputo cogliere l’anima dell’alpinismo

Un malore improvviso si è portato via Antonio Pennacchi, scrittore pontino, premio Strega nel 2010. Penna pungente se ne va a 71 anni nella sua casa circondata dalla pianura, quella che non ha nulla a che vedere con noi e la nostra passione. Quella bonificata in quegli anni là, dove la vita raramente cerca l’odore dell’aria rarefatta. Eppure Pennacchi, così distante dal nostro mondo, ha saputo rendere omaggio al sogno alpinistico, comprendere cosa spingesse un ragazzo di pianura a inseguire il proprio fuoco interiore, andando contro voci e dicerie, a sfidare il difficile, il pericoloso. A provare laggiù dove anche i più grandi ti hanno detto di non andare. Spesso non lo capiamo nemmeno noi, che dovremmo condividerne il sentimento, eppure Pennacchi con quella sua esistenza lontana nel tempo e nello spazio dalle vette ha saputo cogliere l’anima dell’ascendere.

“Non c’è essere umano che – da bambino o adolescente – non abbia sognato di fare da grande ciò che a nessun altro era mai riuscito: nel lavoro, nello sport, nell’arte, nella scienza o all’avventura. Poi mano mano, crescendo, la maggior parte si adegua agli standard del reale e cerca una vita pressappoco uguale a quella degli altri: ‘Perché chiedere di più?’. Ci sono invece quelli – una minoranza – a cui il fuoco non si spegne con la crescita; ma resta e continua ad ardere, rendendogli impossibile accettare una vita normale. Debbono sempre osare e tirarla al massimo – pure in cerca di guai – sempre in bilico, sull’orlo, a forzare e superare i limiti. Sognano un’impresa e subito la tentano, e più questa è difficile e più gliene viene voglia: ‘Non l’ha fatta mai nessuno? Be’, è per questo che la debbo fare io. Se no chi la fa?’. Pensa tu solo a quanta gente è morta, prima che imparassimo a volare […] Se non ci fossero al mondo quelli come loro – che con gli occhi bambini e col sorriso sulle labbra sfidano l’inviolabile – noi staremmo tutti ancora all’Età della pietra, anzi, pure prima: sopra le piante come ogni altra specie di scimmie, nel centro dell’Africa, a mangiare banane. Quando il primo di noi – un milione e mezzo d’anni fa – è sceso dall’albero, ha raccolto una pietra con cui poi ne ha scheggiata un’altra per farne un utensile e s’è levato in piedi in mezzo alla savana, a vedere se per caso passasse una gazzella, noi tutti in coro, da sopra l’albero, gli strillavamo: «Che cazzo stai a fa’? Torna subito qua, che là sotto te se magnano i leoni». Invece è lì che è nata la civiltà – lo sviluppo, la tèkne come primo passo della civilizzazione – proprio quando dietro a lui siamo scesi tutti e, un passo dopo l’altro, seguendo sempre i divergenti, siamo arrivati dove siamo: alle navicelle spaziali oramai pronte per la conquista del cosmo. Ogni singolo progresso dell’umanità è dovuto a quei pochi nati e cresciuti con il fuoco dentro e privi del normale senso del limite. Li dovremmo non solo ricordare, ma soprattutto ringraziare”.

Stroncato da un infarto mentre parlava al telefono con la moglie se ne va una delle più raffinate e dirette penne italiane. Una di quelle che ha saputo farsi amare per la rabbia e l’ironia della sua scrittura. È morto adulto sulla poltrona di casa – forse –, dopo aver vissuto la sua vita. Ma in fondo non è questo che conta, non è la data che si incide sulla lapide. “C’è poco da fare: prima o poi tocca a tutti e non conta – alla fine – come si muore, ma come si è vissuto”. Muoiono “pure quelli che restano a casa. Pure giovani giovani: in macchina sulla Pontina, quando non proprio dentro casa scivolando in bagno su una saponetta. Muoiono perfino quelli che non fumano – anche quelli che non hanno proprio mai fumato, mai bevuto, mai drogati, pensa tu! – mentre certi che fumano arrivano magari a cent’anni”. E allora buon viaggio Antonio tanto, prima o poi, ci si raggiunge. Noi continuiamo a scrivere di quei ragazzi con gli occhi bambini e il sorriso sulle labbra che amano divergere dalla normalità per sfidare l’inviolabile.

Exit mobile version