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Vivere in montagna, una scelta sempre più diffusa malgrado le difficoltà

Quelli che vivono e lavorano in montagna” è il titolo di copertina di “Buone Notizie”, lo speciale del Corriere della Sera dedicato a ciò che di positivo c’è nella società e nella vita (non poco!). “Sono giovani, preparati, motivati. Partono dalle città con le migliori intenzioni – si legge -, ma solo una piccola quota di loro riesce a concretizzare il sogno di vivere e lavorare in montagna”. Altro che “lassù gli ultimi”, oggi sembra che in molti siano attirati dalla quota: la montagna e il suo isolamento, a maggior ragione in tempo di pandemia, attirano. Continuando, si scopre che ci sono servizi e organizzazioni che aiutano chi sogna e programma pace, isolamento, qualità della vita, aria buona e natura a spostarsi dalla città ai monti, suggerendo luoghi, percorsi di adattamento e inserimento nel nuovo ambiente.

E fin qui tutto bene, ma si legge anche che la percentuale di successo dei nuovi innesti di umanità sui monti non supera il 10%. Mi viene il sospetto che sia perché in montagna la gravità terrestre incide di più sulla qualità della vita e la difficoltà del vivere, perché la natura è fatica giornaliera e anche gioia per carità, ma non bisogna sottovalutare l’impegno e il lavoro, tanto: dopo qualche settimana di splendida solitudine o hai un carattere forte, meditativo, che s’accontenta del cielo, dei boschi, dei contatti umani rarefatti e spesso rustici, o vai in depressione. E pare valga per gli uomini, quanto per le donne. Nessun discrimine di genere.

Quelli che rimangono, a detta di molti buoni esperti in campo, sono i più fantasiosi, ingegnosi e creativi imprenditorialmente; sono i nuclei o le coppie; sono spesso laureati trentenni, talvolta con carriere avviate. Danno vita a imprese sostenibili e green, praticano soprattutto negli ultimi tempi i dettami dell’economia circolare, allevano capre e bovini, raccolgono e coltivano prodotti di alta qualità, dalle erbe ai frutti al miele, ma producono anche indumenti di cachemire con tecnologie artigianali sofisticate, allevano cani di razza, sviluppano ecoturismo e gastronomia a chilometro zero. Roba da eroi, racconta Paolo Cognetti, milanese, che in baita a 2000 metri in Val d’Ayaz è andato a vivere qualche anno fa per scrivere libri di successo sulle montagne e per fare l’imprenditore aprendo un rifugio. È un amore il suo, razionale e quasi disumano. Quelli che scelgono di vivere in montagna, racconta al Corriere lo scrittore, hanno “un grande slancio iniziale, che dura un anno, seguito dalla fase in cui sentono la fatica e l’isolamento. L’avvicinarsi del secondo inverno è il momento critico”. Lui però continua a resistere a costruire a sognare.

Queste appena raccontato sono le montagne e le storie dei nuovi (purtroppo rari) immigrati della montagna, che ne colonizzano e trasformano positivamente piccole parti, magari anche con l’aiuto di nuove associazioni come RestartAlp della Fondazione Garrone. Poi però c’è la montagna dei montanari autoctoni, che è il restante 90% dell’immensa realtà alpina, appenninica e pure delle isole. Una realtà che ha le sue specificità complessive date dal territorio spesso difficile, abbandonato, talvolta pericoloso e dalla complessa logistica per il lavoro, la scuola, la vita e la sanità, per non parlare di cultura e benessere. Ci sono anche le specificità territoriali locali: i ghiacciai, le crode, i pascoli e le foreste, i pendii ripidi o dolci, le valli profonde, i paesini spopolati, il disseto idrogeologico, l’energia elettrica, la posta e la rete internet, la strada, le frane, la neve, l’osteria, gli impianti da sci, gli allevamenti e il latte, gli alberghi, i negozi e così via.
Nonostante tutto questo, grazie a tutto ciò che di positivo è la montagna, “Buone Notizie” ci dice che il 67% dei giovani tra i 18 e i 39 anni che nascono nelle terre alte vogliono rimanerci a vivere; il 54 % di loro ha fatto esperienze lavorativi “fuori” e poi è tornato, il 41% ha frequentato o frequenta l’università e il 67 % ha un lavoro.

Mi viene da chiedere se in questi tempi di consultazioni delle forze politiche e delle “parti sociali”, qualcuno abbia speso una sola parola per la montagna con Draghi. Eppure, le “terre alte”, così ci si inventò di definirle qualche anno fa in occasione dell’Anno Internazionale delle Montagne grazie alla gentile testa dell’antropologo Annibale Salsa, sono sempre lì e rappresentano il 35,2 % del territorio nazionale e ancor di più se ci si inseriscono le colline. Sono 12 milioni di persone che ci vivono e lavorano, più o meno 4000 comuni sono montani. Potrei anche sbagliare, ma se ne hanno accennato in queste giornate cruciali per la Patria, la questione avrà riguardato lo sci e i mondiali di Cortina. Cose importanti, per carità.

Ci torneremo su questi argomenti e lo faremo presto perché sono importanti e bisogna che diventino un pensiero forte, collettivo e determinante. Specialmente in tempi di Next Generation UE, magari anche per le montagne.

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4 Commenti

  1. E’meglio andare a vivere in montagna senza il becco di un quattrino, o con fondi precedentemente accumulati grazie a attivita’ intensa ben remunerata?
    Il Meglio ‘ e’ meglio andarci con donazioni di parenti o genitori che hanno lavorato come muli e ti finanziano come erede , ci compri prati , boschi e restauri edifici tradizionali con progetto di architetto , inizi una nuova attivita’ con tutte le atrezzature e locali che servono, collegato col fast web e ci guadagni ancor di piu’.

  2. Noto che fra la poca gente che vive in montagna, penso a causa dell’asperità del territorio, i rapporti interpersonali, escludendo le solite liti e rivalità che esistono dappertutto e sono una caratteristica umana, di solito sono più profondi e attenti, rispetto a quelli che si vivono nelle città, dove si è in tanti, ma sempre estranei e quasi tutti solo concentrati su sé stessi.
    Si potrebbe dire: pochi, soli, ma buoni………con “caratterini” molto forti 🙂
    Penso che la grande difficoltà che si incontra sia dovuta al dover rinunciare al continuo bombardamento delle indicazioni e come conseguenza a dover scegliere con la propria testa.
    Non credo che la più grande difficoltà sia il faticare per vivere.
    Parlo della vivere in montagna, non nelle “città” di montagna, nevvero, anche se lo sviluppo quasi sempre proposto tende a far diventare il vivere in montagna come il vivere in città, per massimizzare il numero di chi può viverci e permetterlo a chiunque…. globalizzazione uniformante delle società, del territorio (esempio l’Inghilterra) e delle persone…..
    Chissà che i giovani riescano a ricreare delle “vite diverse” e riscoprano la semplicità.

  3. Quelli che restano credo siano quelli con sicuri capitali alle spalle per far fronte alle spese di insediamento, ristrutturazione, logistica, o quelli con lauti guadagni di carriere avviate che possano lavorare indipendentemente dalla residenza.
    Il resto è vuota chiacchiera Salvo pochissimi casi.

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